giovedì 30 giugno 2016

Scampò ad un agguato a Giugliano. «Ci serve un favore, uccidete Cardillo»

NAPOLI. E' ancora il super pentito Antonio Accurso a svelare i dettagli dell'omicidio di Mimmo Raffone e del ferimento del boss, oggi collaboratore di giustizia, Mario Lo Russo. Protagonista della vicenda Fabio Cardillo, affiliato ai Capitoni, ma in rotta di collisione con i vertici dell'organizzazione criminale, come si evince dalle dichiarazione, qui di seguito riportate dell'ex capo della Vanella Grassi.

Si consideri che quando io sono stato scarcerato, nel maggio del 2013, referente per il clan Lo Russo era LELLE’, ma la scarcerazione di Mario Lo Russo ovviamente determinò dei cambiamenti nel senso che lui riprese il comando e ci disse che parlare con Lelle’ era come parlare con lui, ma allo stesso tempo vi era Ettore Bosti che, benché appartenga ai Contini, è comunque legato da rapporto di parentela con i Lo Russo in quanto ha sposato una figlia di Mario Lo Russo. Non a caso Ettore Bosti come ho detto è stato presente a questi incontri ed è stato incaricato proprio da Mario Lo Russo per il pagamento di quella fornitura di cocaina. 

Inoltre vi è stato un problema legato a Fabio Cardillo, fratello di Antonio. Io già conoscevo Fabio Cardillo, in quanto lavorava con il fratello Antonio che aveva una piazza di erba e faceva i passaggi di mano di cocaina dove aveva un rimessaggio di barche. A fine settembre, inizio ottobre, del 2013 Fabio Cardillo venne da me nella Vinella a dirmi che il fratello in carcere aveva parlato con uno dei nostri, non ricordo se con Mennetta o Petriccione, riguardo alla possibilità di fare affari insieme nel settore della vendita del pane. Mi disse che aveva avuto dei problemi con i Lo Russo, in particolare con Mario Lo RUSSO che si era preso anche una sua casa popolare, in cui era andato a vivere Ettore Bosti con la moglie, e mi propose di entrare nel business del pane, cioè mi disse che aveva un forno per il pane e voleva entrare nella fornitura di pane nelle nostre zone dandoci la percentuale che quantificò in circa 10.000 euro al mese. 

Io lo misi in contatto con Nicola Coppetta delle Case bianche e celesti e l’affare è andato in porto anche se con un guadagno inferiore a quello che Fabio mi aveva garantito. Dopo poco Fabio Cardillo ha avuto un agguato a Giugliano nella sua vecchia abitazione. L’ho saputo da Luciano Pompeo che venne insieme al Calabrese e a un ragazzo con gli occhiali che chiamiamo o’ Ti. Mi dissero che avevano avuto questo scontro a fuoco con Fabio, che lui aveva risposto al fuoco e mi chiesero a titolo di favore di occuparmi io del suo omicidio. Era il periodo in cui si era da poco pentito Pacciarelli Mario e quindi io dissi che non era il momento di fare questa cosa. Mi dissero che avevano fatto questo agguato a Fabio perché lui si era rifiutato di versare ai Lo Russo una quota dei proventi delle sue attività illecite ed anche che erano preoccupati che lui potesse uccidere qualcuno di loro, avendo saputo che aveva acquistato un borsone di armi da degli albanesi. 

Nicola Coppetta mi confermò che i Lo Russo avevano fatto questo agguato a Fabio. Nicola mi disse che Fabio dopo questo agguato camminava armato e voleva parlarmi, accettai quindi di incontralo, venne da me e mi raccontò quello che era successo, mi disse che erano stati i Lo Russo che erano incappucciati ma era sicuro che erano stati loro. Fabio mi disse anche che era presente la moglie ed il cognato, non Giovanni Lista, altro cognato credo dal lato della moglie di cui non ricordo il nome. La moglie apprendo da Lei chiamarsi Valeria Corona ma non mi viene in mente il nome del cognato. Io suggerii a Fabio di “stare chiuso”nelle nostre zone, di stare attento e di stare armato, cosa che lui faceva già. 

Accadde poi che il fratello Antonio Cardillo spedì dal carcere una lettera ai Lo Russo in cui chiariva che dovevano avere a che fare con lui e non con il fratello, insomma si prendeva le sue responsabilità invitando i Lo Russo a lasciare stare il fratello. Luciano Pompeo e Salvatore Silvestri mi raccontarono di questa lettera e mi chiesero di fare da garante con Fabio Cardillo di calmare le acque, nel senso che loro si impegnavano a lasciarlo stare ma volevano tramite me garanzia che lui facesse altrettanto. Io parlai quindi con Fabio Cardillo e lo informai che io avrei garantito la pace tra lui ed i Lo Russo. La cosa quindi si calmò sino ad arrivare all’omicidio di Mimmo Raffone. 

Accade infatti che io avevo partecipato ad una fornitura di droga dall’Olanda propostami da Valerio e Luciano che trafficavano in droga, droga che io acquistavo da loro che la compravano in Olanda. Mi proposero poi di fare una puntata con loro ed io diedi loro 66.000 euro per un acquisto di 3 kg di droga, due pagati ed uno a fiducia. Questo carico di droga di circa 10 kg, non andò in porto perché ci fu un sequestro di 220,000 euro eseguito dalla Dda di Salerno fatto alla società di trasporto. Dico che è la Dda di Salerno perché mi fecero vedere una carta del sequestro, era gennaio o febbraio del 2014. 

Dopo poco da questo sequestro andai a Miano ed ebbi un altro incontro, questa volta casuale, con Mario Lo Russo, Mimmo Raffone, Luciano, Valerio e Salvatore Silvestri. Seppi che anche Mario aveva partecipato a questo acquisto dall’Olanda ed aveva perso 66.000 euro come me. In questa occasione si parlò di nuovo di Fabio Cardillo perché Mario ed anche gli altri dissero che faceva soldi con la droga, senza contribuire alle spese del clan a differenza di loro che si prendevano cura degli affiliati e dei detenuti. Mi proposero di fare una truffa a Fabio cioè di farmi dare una fornitura di erba e di non pagargliela, e mi proposero anche di ucciderlo. Io mandai a chiamare Fabio e lo incontrai sul campo di calcetto a Corso Italia a Secondigliano e gli contestai che avevo saputo dei suoi affari con l’ erba che mi aveva taciuto, lo rimproverai per non avermi messo al corrente dei suoi guadagni con l’erba e lui si rese disponibile a darmela a prezzo di costo. Questo accadeva qualche giorno prima dell’omicidio di Mimmo Raffone. In questa occasione lui mi parlò dei problemi che stava avendo con la moglie del fratello che aveva degli orologi del fratello che non voleva restituirgli ed io mi resi disponibile a risolvergli il problema mandando qualcuno a parlare a Miano. Mandai a chiamare Luciano Pompeo per risolvere questa cosa degli orologi e lui mi disse che il problema era risolto perché il padre di Fabio Cardillo aveva parlato con Mario Lo Russo ed avevano chiarito. Io mandai un nostro affiliato, Totti, a dire a Fabio che poteva andare a prendersi questi orologi. Luciano mi disse anche che Mario Lo Russo aveva avuto discussioni con Lellè e lo aveva messo da parte e che lui era diventato il suo portavoce. 

Questo è accaduto qualche ora prima dell’omicidio di Mimmo Raffone che è avvenuto la sera del sabato. Ho appreso dell’omicidio da Internet ed ho immaginato che potesse essere opera di Lelle’ per quanto mi aveva detto Luciano sui dissidi avuti con Mario, invece il giorno dopo ho saputo da Luciano Pompeo e poi da TOTTI che Mimmo Raffone era stato ucciso da Fabio Cardillo. In particolare la mattina successiva all’omicidio mi trovavo al centro scommesse di via Improta a Secondigliano insieme a mio fratello Umberto, Corcione Giuseppe, Fabio Di Natale ed altri affiliati quando vennero Luciano Pompeo e Gianluca, altro loro affiliato che sono in grado di riconoscere, e ci chiesero notizie dell’accaduto. 

In particolare loro sapevano che FABIO Cardillo aveva sparato a Mimmo Raffone ed a Mario e lo andavano cercando. Inoltre pensavano che insieme a Fabio durante la sparatoria potesse esserci stato il nostro affiliato Totti, persona che lavorava l’erba con Fabio Cardillo. Noi dicemmo loro che Totti non era coinvolto e per dargliene prova lo convocammo subito a casa mia facendo nascondere Luciano e Gianluca nel bagno. Totti venne a casa mia e ci spiegò che Fabio stava con il cognato di cui non ricordo il nome, che era andato dalla moglie di Antonio Cardillo a prendersi gli orologi e si era imbattuto in Mario Lo Russo e c’era stata questa sparatoria in cui era stato ucciso Mimmo Raffone. Totti ci raccontò anche che, dopo l’omicidio, Fabio Cardillo era andato da lui nelle case bianche e celesti e gli aveva portato la pistola che lui aveva provveduto a distruggere e che si era poi allontanato per fare perdere le sue tracce appoggiandosi da Gaetano Monaco, un rapinatore che conosco bene perché lavorava con la droga con Fabio Magnetti. Luciano e Gianluca hanno quindi sentito il racconto e si sono convinti della nostra estraneità ai fatti. 

Andato via Totti, abbiamo quindi parlato con Luciano Pompeo che, dopo essersi convinto che Totti non stava con Fabio Cardillo, ci chiese di aiutarli per localizzare Fabio Cardillo volendo a tutti i costi vendetta. Inoltre ci raccontò di quello che avevano fatto a Lista Giovanni cioè del fatto che lo avevano colpito se non sbaglio con un cacciavite per sapere da lui notizie sul cognato. Mi fece i nomi di Valerio e di Salvatore Silvestri come persone che presero parte oltre a lui a questa aggressione. Dopo poco ci sono stati gli arresti che voi avete fatto per questa vicenda e quindi gli equilibri sono di nuovo cambiati perché avete arrestato Luciano Pompeo e Mario Lo Russo. Rimasero invece liberi Silvestri Salvatore, Gennaro Palumbo ed Enzo il fratello di Lellè, quest’ultimo invece si diede alla latitanza così come Giggiotto. 

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Il pane della camorra, blitz contro clan Lo Russo

Duro colpo al clan Lo Russo di Napoli, i cosiddetti “capitoni”, storicamente attivi a Miano, nelle zone limitrofe e nel quartiere Sanità, con l’arresto di 24 loro presunti esponenti, indagati a vario titolo per associazione di stampo mafioso, di associazione finalizzata al traffico di droga, estorsioni, detenzione di armi da fuoco, tentato omicidio e omicidio colposo.

A disporre le misure cautelari è stato il gip del Tribunale di Napoli, su richiesta della Dda, mentre ad attuarle sono state la squadra mobile di Napoli, i carabinieri di Napoli Vomero e il Gico partenopeo.

Il blitz si fonda su indagini svolte soprattutto attenzionando Carlo Lo Russo, esponente di primo piano del clan che, tornato in libertà lo scorso luglio, è stato di recente messo nuovamente in manette dopo l’omicidio di Pasquale Izzi.

L’attività investigativa è avvenuta mediante intercettazioni telefoniche ed ambientali, sopralluoghi e sequestri. Sotto la lente d’ingrandimento delle forze dell’ordine, oltre Carlo Lo Russo, anche vari soggetti strettamente connessi al suo nucleo familiare. È stato così possibile individuare il gruppo di fuoco del clan – alcuni membri del quale già detenuti dall’aprile scorso proprio per l’omicidio Izzi – nonché l’apparato estorsivo della famiglia camorristica ed il comparto dedito allo spaccio di droga. Quanto scoperto nei mesi scorsi ha anche trovato conforto in numerose dichiarazioni di collaboratori di giustizia sia interni al clan (tra cui i fratelli Salvatore e Mario) sia appartenenti a clan alleati.

Le indagini hanno permesso di ricondurre agli indagati un vero e proprio arsenale sequestrato nel gennaio scorso in via Janfolla. Inoltre si è fatto luce anche sugli autori dei tentati omicidi di Walter Mallo e Paolo Russo, quando lo scorso 21 marzo vennero trovati, nel Rione Don Guanella, 33 bossoli.

Altro particolare degno di nota emerso dalle indagini è la particolare efferatezza delle recenti azioni ad opera dei membri più giovani del clan. In un episodio due killer, mentre erano alla ricerca della loro vittima, investirono con lo scooter e uccisero una donna mentre attraversava la strada, che abbandonarono senza prestarle soccorso. La vittima aveva una sessantina di anni, e si chiamava Giovanna Paino.

Inoltre, è stato possibile ricostruire le modalità con cui il clan operava nel settore del racket. Esercizi commerciali, ambulanti e persino grosse catene erano costrette ad acquistare pane a prezzo maggiorato prodotto da forni facenti capo ai Lo Russo. Contestualmente alle misure cautelari, sono stati anche sequestrati panifici ritenuti riconducibili alla fazione camorristica.

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domenica 26 giugno 2016

Camorra. Il ferimento del ras 'Muoll Muoll' ha dato il via alla guerra tra i clan

AREA FLEGREA. La tregua nell’area flegrea è durata poco, così come la maggior parte degli investigatori prevedeva. Già dopo la sparatoria in via Antonino Pio a Soccavo, all’angolo con via dell’Epomeo ad aprile scorso scorso, polizia e carabinieri non avevano più dubbi: la guerra di camorra tra i due schieramenti dell’area flegrea continua. Da un lato c’è il nuovo asse di malavita Sorianiello-Romano, alleati del rione Traiano; dall’altro i Vigilia, che avrebbero stretto un accordo con i Pesce-Marfella di Pianura. Ad aprile si trattò di una classica “stesa” con sparatoria finale inizialmente senza propositi di uccidere, anche se tre colpi centrarono i balconi di altrettante abitazioni; poi i componenti il commando dei Sorianiello incontrarono un esponente della famiglia Vigilia e partirono dei proiettili contro di lui, solo per miracolo rimasto illeso. 

A Soccavo ci poteva scappare il morto innocente, ma non è stato il primo caso. Prima si erano verificati numerosi fatti di sangue riconducibili ai contrasti scoppiati per il controllo degli affari illeciti in zona. A cominciare dal ferimento di Salvatore Romano detto “Muoll muoll”, a novembre scorso, fino all’omicidio di Giuseppe Perna detto“Viglione”.

Inizialmente gli agguati e le sparatorie venivano attribuite a contrasti interni a ogni quartiere: Soccavo, Pianura,Bagnoli, Traiano. Invece un unico filo di sangue li legherebbe e le ostilità sarebbero cominciate per spodestare i due gruppi di mala in quel momento più forti, nell’inverno scorso: i Vigilia a Soccavo e i Pesce Marfella a Pianura. Così sarebbe nata la nuova alleanza di camorra, i cui esponenti sarebbero stati protagonisti anche del clamoroso conflitto a fuoco del 20 aprile scorso con la polizia in via Giorgio dei Gracchi, conclusosi con l’arresto per detenzione in concorso di armi da fuoco di un ex pentito del clan Giuliano di Forcella.

Una faida, quella nei quartieri flegrei, che conta già tanti morti uccisi. L'ultimo agguato non è andato a segno: vittima designata dei killer era Giovanni Bellofiore, secondo gli inquirenti, pusher legato al clan Foglia. 

IL ROMA

giovedì 23 giugno 2016

Camorra. Processo al clan Lo Russo, stangata al boss Antonio e ai suoi fedelissimi

MIANO. Una mazzata nonostate lo sconto di pena con il rito abbreviato per il clan lo Russo di Miano o meglio per la costola dei duri dei “capitoni” rimasti fedeli ad Antonio Lo Russo, il boss della bella vita e figlio del pentito Salvatore. Condanne complessive per 125 anni di carcere per i sedici imputati accusati di associazione di tipo camorristica, estorsione, traffico di droga, sigarette di contrabbando e gasolio - riporta Cronache della Campania -. Le ha inflitte il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Napoli che ha accolto in massima parte le richieste del pm Enrica Parascandolo della Dda.

Le pene più severe sono state inflitte a Carlo Davide(cugino di Carlo Lo Russo), Claudio Esposito (zio della moglie di Antonio Lo Russo, Annalisa Gargano) e Pasquale Torre (16 anni a testa). Si è beccato dieci anni di carcere invece il boss Antonio Lo Russo e con lui Giovanni Campaiola e Luigi Forino. Tra gli imputati ci sono anche degli insospettabili, persone delle quali la cosca si serviva, secondo l’accusa, per riuscire a garantire una latitanza dorata ad Antonio: Giovanni Campaiola e Luigi Forino. Il gruppo fu smantellato il 12 gennaio scorso nel corso di un blitz nel quale furono anche sequestrati beni immobili, oggetti d’oro e soldi, da parte del Gico della Guardia di Finanza di Napoli. Un decreto di sequestro preventivo d’urgenza per togliere tra le mani degli affiliati il loro “tesoro”, il “guadagno” di attività illecite. Così finirono sotto sequestro e sono ancora sotto sequestro, aziende per la produ- zione di guanti, giocattoli e articoli per la casa con punti vendita a Napoli e Latina, un centro scommesse, case a Napoli e Fondi, conti correnti per un totale di oltre 20 milioni di euro.

LE CONDANNE 

Lo Russo Antonio 10 anni

Briante Antonio 2 anni

Campaiola Giovanni 10 anni

Capone Luigi 4 anni

Cennamo Antonio 3 anni e 8 mesi

D’Andrea Emanuele 3 anni e 4 mesi

Davide Carlo 16 anni

Esposito Claudio 16 anni

Forino Luigi 10 anni

Mercolino Alfredo 9 anni

Palma Crescenzo 9 anni

Potenza Gerardo 2 anni e 4 mesi

Russo Umberto 9 anni

Torre Pasquale 16 anni

Vitale Bruno 3 anni

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«In carcere mi prendono in giro». Superboss disperato pensa al suicidio: c'è anche l'ipotesi pentimento

NAPOLI EST. Lo temevano tutti a Ponticelli. Perché aveva testa ma soprattutto perché era un sanguinario. Antonio De Luca Bossa detto ‘o sicc è stato uno dei protagonisti assoluti della storia criminale di Ponticelli degli anni Novanta. Fedelissimo dei Sarno. Tanto che i boss del rione De Gasperi lo consideravano uno dei famiglia. «Ci spartivamo il giorno e la notte. Stavamo sempre insieme. Per me era come un fratello», ha detto in più di un’occasione Vincenzo Sarno, dal 2009 collaboratore di giustizia. Un ras a tutti gli effetti. Che agli occhi della comunità criminale del Lotto O – il suo rione – è rimasto tale sino ad oggi, benché lui sia bloccato in cella da quasi vent’anni per via di una condanna – definitiva - all’ergastolo per l’autobomba di via Argine del 25 aprile del 1998 (in cui morì il nipote del boss Vincenzo Sarno, vero obiettivo) che segnò il punto di rottura del legame tra i boss del rione De Gasperi e il gruppo del Lotto O.

Osannato dai criminali, De Luca Bossa. Ma a torto. Perché la storia contemporanea racconta un’altra realtà, rimasta sommersa. Tonino ‘o sicc è un ‘re’ (del Male) decaduto che viene preso in giro finanche dagli altri detenuti, mentre la sua famiglia organizza una colletta – sì, una colletta – per cercare di fargli arrivare quanti più soldi possibili in prigione affinché lui, il detenuto, possa ostentare una parvenza di ricchezza e, dunque, di potere. Antonio De Luca Bossa è un sovrano senza «più dignità», come egli stesso svela sconfortato in un carteggio di lettere segrete destinate ai suoi parenti, alla sorella Anna, in particolare, la reginetta del Lotto O che lunedì mattina è finita in galera insieme alla figlia Martina Minichini per aver gestito lo spaccio di droga nel proprio rione in combutta coi D’Amico del Conocal. La parabola discendente di Tonino ‘o sicc la disegna proprio lei, Anna, custode dei tormenti del congiunto. E lo fa nella sala colloqui di un carcere, dove è detenuto un altro suo fratello, Christian Marfella (figlio di Teresa De Luca Bossa, che è la madre di Anna, e del boss di Pianura Giuseppe Marfella), cresciuto nel mito di Tonino ‘o sicc, tanto che s’è fatto tatuare il soprannome del ‘maggiore’ alla base della gola. «Antonio ha scritto una lettera…», dice Anna. Una lettera che manda in fibrillazione la famiglia. «Non abbiamo capito se si uccideva o si buttava (passava a collaborare con la giustizia, ndr) – sussurra - Ha detto: io sono stanco, non ce la faccio più, ho perso la dignità… sono stato un mese senza soldi…. Vedo quelli scemi fuori alla cella che dicono prenditi un po’ di mangiare in più’. Ha detto che sta facendo tante figure di merda». Anna si ferma. Sospira. È preoccupata. In famiglia hanno cercato di correre ai ripari quando è arrivata la massiva. «Ci siamo riuniti tutti quanti – spiega a Christian Marfella – Ci siamo riuniti a casa. Abbiamo parlato… Diamo 150 euro al mese. Adesso facciamo 50 euro ciascuno al mese… Io metto 50… Rosaria 50… Nanà e Alfonsina danno pure loro 30 euro a testa.. Raccogliamo sei, settecento euro al mese». Anche Marfella vuole partecipare, benché sia bloccato in cella a sua volta per un tentato omicidio e un’incursione a mano armata all’interno di un circolo di scommesse, episodi consumatisi entrambi nel 2013 nella prima fase della faida tra i De Micco e i D’Amico. «Duecento euro li puoi prendere da sopra i soldi miei», dice, alludendo ai soldi che gli passano i D’Amico ai quali Marfella si era unito nello scontro coi De Micco. È una colletta.

Una colletta per cercare di sostenere economicamente Tonino ‘o sicc. «Pensiamo ad Anton io adesso, speriamo che non faccia alcuna tarantella», insiste Marfella. Che poi chiede chiarimenti su quelle parole «mi voglio buttare» fermate dal fratellastro sulla carta. Anna esclude subito che ‘o sicc possa imboccare il viale della collaborazione con la giustizia e ritiene che quell’espressione nasconda una volontà suicida. «Penso più che si vuole uccidere…», taglia corto. È il 30 maggio 2013 quando Anna De Luca Bossa e Christian Marfella descrivono in modo plastico il destino discendente di chi sceglie di percorrere la strada della malavita organizzata. Poche parole che resteranno scolpite nella memoria: «Ho perso la dignità. Qui in cella mi sfottono. Sto facendo tante figure di merda».

FONTE: METROPOLIS

Nella galleria della vergogna la grotta dei record tecnologici

Quante volte avete imboccato la galleria Vittoria? Domanda retorica: per ogni napoletano quel tunnel è un percorso abituale; e anche un percorso ad ostacoli, spesso pericoloso fra buche, cedimenti, lavori che si susseguono e quelle impalcature davanti agli ingressi che stanno lì da un anno e mezzo perché non si trova il denaro per risanare le facciate.

Quanti di voi si sono accorti che quel tunnel degradato custodisce una meraviglia tecnologica che porta Napoli sul tetto d’Europa? Nessuno, ovviamente. Eppure quel gioiello di altissima tecnologia c’è, ed è anche determinante per la città: è la cabina Enel di Napoli Centro dalla quale nasce l’energia che illumina il Palazzo Reale e il San Carlo, Castel dell’Ovo e gli alberghi del lungomare, il teatro Politeama e migliaia di case dei napoletani che vivono nell’area compresa fra il mare e il Corso Vittorio Emanuele.

Proprio nel cuore della galleria Vittoria (sulla sinistra venendo da via Acton) c’è un immenso cancello di ferro, ora che lo sapete, fateci caso: lì dietro ci sono due cavità naturali all’interno delle quali l’Enel è riuscita a infilare una quantità di tecnologia, e di sicurezza, così elevate da trasformare quel luogo in un centro da primato continentale: quella è la prima e più importante cabina elettrica sotterranea raffreddata con l’acqua di mare.
E qui il racconto merita d’essere approfondito: noi l’abbiamo fatto grazie al capo del Telecontrollo di Enel Distribuzione Campania, Gianluca Cioffi, a Marcello Di Gregorio dell’Esercizio Rete e ad Amilcare Finamore dell’unità Progettazione e Lavori che sono stati i nostri ciceroni nel ventre della città dove nasce l’energia.
Parlavamo del mare, dunque. Anche se a voi sembrerà strano, tutta la clamorosa tecnologia che è stata piazzata sottoterra, riesce a «vivere» solo grazie all’acqua del mare. Il fatto è che dentro alle grotte Enel che si trovano nella galleria Vittoria, arrivano da Est e da Ovest due giganteschi cavi con la corrente a 220mila Volt e quella corrente va «ridimensionata» prima di essere spedita dentro le nostre case. Per «abbassare» la potenza (gli esperti inorridiranno a questa spiegazione, ci scusiamo. Ma per noi inesperti va bene così) bisogna utilizzare dei trasformatori. Avete presente quelle scatolette nere che usiamo quotidianamente, magari per collegare il computer alla presa di corrente? Ecco, quelli sono trasformatori e spesso vi accorgete che diventano un po’ caldi, tutta colpa del «lavoro» di trasformazione del voltaggio. Adesso pensate che i due trasformatori piazzati dentro la galleria Vittoria pesano 194 tonnellate l’uno (in totale 388 tonnellate di «roba») e che devono prendere la corrente a 220mila volt per trasformarla in corrente a 9mila volt: ovviamente si riscaldano «un pochino», praticamente bollenti come lava viva. Ed è qui che entra in gioco l’acqua del mare: tre grossi tubi pescano l’acqua al Molosiglio e, con un percorso di due chilometri, la portano tutt’intorno ai trasformatori per raffreddarli. Poi quella stessa acqua viene utilizzata anche per climatizzare l’ambiente e, nel giro di pochi minuti viene «restituita» al mare a una temperatura che è esattamente quella alla quale è stata prelevata.

Solo occhi già esperti ma ancora giovani e pronti a divorare ogni «scoperta» come quelli di Gennaro Palumbo, maturando in materie tecnologiche, ammesso a partecipare alla visita, sono riusciti a comprendere ogni dettaglio di quella meraviglia tecnologica. Chi, come noi, è meno avvezzo ai misteri dell’elettricità, è rimasto, invece, stupito arrivando nel cuore esatto della cavità e scoprendo che ci sono decine di piccole cabine grigie dalle quali si dipana la corrente per la città. C’è l’armadietto con la scritta «Palazzo Reale», quello con l’indicazione «Nunziatella», quello destinato alla Riviera di Chiaia e quello che promette di infilarsi nel Maschio Angioino: è emozionante pensare che proprio qui, nella pancia del monte Echia, è nascosta l’energia che fa muovere tanta parte di Napoli.

Ovviamente i sistemi di sicurezza sono tantissimi e infallibili. È praticamente impossibile violare questo luogo che peraltro è sorvegliato a vista; ed è anche impossibile che un eventuale (e non auspicabile) incidente possa coinvolgere la città. I macchinari più sensibili sono nascosti dietro muri d’acciaio capaci di assorbire anche l’impatto di un missile.

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mercoledì 22 giugno 2016

Carneficina di Melito: l’ultimo “sgarro” agli Amato-Pagano

Di Dario Moio

MELITO – La carneficina di Melito, che nel primo pomeriggio di ieri ha causato la morte di due persone e il ferimento di altre due, è solo l’ultimo e più rumoroso campanello d’allarme che qualcosa nel mondo criminale a nord di Napoli si sta muovendo.

Il vero obiettivo dei killer ieri era Domenico Amato, figlio del boss scissionista Raffaele: il ragazzo, 17 anni ancora da compiere, si è salvato ma è rimasto gravemente ferito. Ma tanto basta per lanciare un messaggio ai vecchi scissionisti che il vento sta cambiando. Melito, una volta feudo del clan Amato-Pagano, non è più un porto sicuro.

Preludio all’agguato di ieri, c’erano stati due episodi avvenuti in rapida successione tra il 18 e il 20 maggio. Il primo è il ferimento di Pietro Caizza, parente di un collaboratore di giustizia ma considerato elemento di spicco degli Amato-Pagano. Tra il il 18 e il 19 maggio, Caiazza si trovava a bordo della sua Mercedes in compagnia della moglie sull’asse mediano. Nel tratto tra Afragola e Melito fu affiancato da un’auto che esplose contro di lui alcuni colpi di pistola. In ospedale raccontò di un tentativo di rapina ma il suo racconto e i suoi precedenti non convinsero gli inquirenti, che ci misero poco a capire che si era trattato di un agguato.

Il secondo episodio avvenne qualche ora dopo a Melito. I militari della compagnia di Giugliano arrestarono tre giovani di Scampia che giravano a bordo di una Lancia Y nei pressi di via Cicerone e armati di pistole pronte a sparare. Si tratta di Leopoldo Marino (33), Raffaele Iacopo (22) e Fabio Lanzetti (32), considerati vicini al clan Notturno-Abete-Abbinante, operante nell’area nord. Gli inquirenti sono convinti che in quell’occasione il terzetto fosse pronto per un agguato.

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Due morti e due feriti nell’agguato di camorra di oggi a Melito, in pieno centro

MELITO – Alessandro Laperuta, 32enne del rione Salicelle di Afragola, è une delle vittime dell’agguato avvenuto oggi a Melito. Dunque, due morti, due feriti ed un’altra persona che è riuscita a fuggire. Sarebbe questo il bilancio dell’agguato di oggi in cui il figlio di uno dei capi del clan camorristico Amato-Pagano, i cosiddetti Scissionisti, forse il principale obiettivo dei killer, risulta essere uno dei due feriti nel raid di camorra. Il minorenne colpito, il 16enne Domenico Amato, è stato raggiunto da diversi colpi di arma da fuoco in via Cicerone, poco dopo le 13, rimanendo colpito a terra. Con lui, trasportato d’urgenza all’ospedale al San Giuliano di Giugliano, è stato  ferito anche un altro uomo, Mohammed Nouvo, 30enne pregiudicato marocchino vicino al clan Amato-Pagano, alla testa. Quest’ultimo è morto in ospedale dopo alcune ore. Sul posto sono giunti i carabinieri della locale tenenza guidati dal tenente Iodice e gli uomini della compagnia di Giugliano agli ordini del capitano De Lise.

Secondo le prime ricostruzioni, pare che in via Cicerone, nei pressi del Parco X, sia cominciato l’inseguimento da parte dei killer che hanno poi raggiunto le vittime colpendo Amato, rimasto a terra ferito al torace. Successivamente le altre due vittime, in compagnia probabilmente di un’altra persona, un 30enne, nonostante le ferite, sono riuscite a fuggire a bordo della loro moto, imboccando via Aldo Moro, poi un controsenso nei pressi dello storico istituto delle suore. A quel punto le vittime, ferite nell’agguato, sarebbero riuscite a scappare mentre il T-Max con a bordo i killler sarebbe stato frenato nella sua corsa da un incidente con una Fiat Punto. Giunti in via Giulio Cesare, i feriti avrebbero provato a curarsi al primo piano del civico 118 del cosiddetto “Parco Padre Pio” ma per uno di loro, Alessandro Laperuta, non c’è stato nulla da fare. Raffaele Mauriello,20 anni, in sella ad un altro scooter, è invece rimasto ferito ed è stato interrogato a lungo dai carabinieri asserendo di non sapere nulla dell’agguato. Pare che oltre ai 3 giovani colpiti fosse presente anche un altro 30enne, scampato all’agguato.

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Faida di Scampia. Ucciso a Melito figlio dell'autista dell'uomo che ha dato inizio a Gomorra

di Matteo Giuliani
MELITO. Era arrivato a Napoli giovanissimo e probabilmente l'immagine che gli è rimasta impressa nella mente è stata quella di una città (più in generale di una provincia) schiava della camorra. Mohammed Nouvo, il 30enne ammazzato due giorni fa in via Giulio Cesare, era stato cresciuto in casa di Antonio Siviero, Siviero l'ha però potuto vedere soltanto compiere la maggiore età, prima di lasciarlo per sempre. Era il 29 settembre del 2004 quando Antonio Siviero fu ammazzato in via Lussemburgo, praticamente all'interno del portone di casa. Tonino passeggiava in compagnia di sua figlia all'interno del rione 219, quando fu avvistato da due killer in sella ad una moto di grossa cilindrata. Immediatamente uno di questi tirò fuori una pistola e lo colpì ripetutamente. Siviero, nonostante fosse stato raggiunto dai proiettili, riuscì ad arrivare fino all'interno del portone di casa dove con ogni probabilità ricevette il colpo di grazia.

Siviero era disarmato e non temeva per la sua vita e quel giorno, secondo le dichiarazioni di alcuni pentiti, non era stato affatto decisa la sua morte. Tonino ebbe la sfortuna di ritrovarsi di fronte due uomini del clan avverso che si trovavano lì per caso, ma non esitarono a tirare fuori la pistola e ad eliminare colui che conosceva i segreti dell'ex capozona.

Siviero era stato per anni autista di Federico Bizzarro, detto 'Bacchettella', di cui era amico e confidente. Gli fu fedele fino all'ultimo istante, fino a quando i killer non fecero irruzione all'interno di un noto albergo di Qualiano e crivellarono di colpi Bizzarro. Per l'omicidio Bizzarro furono condannati Antonio Ronga e Rosario Fusco, due ex luogotenenti del boss che decisero di farlo fuori dopo che questi aveva deciso di dichiararsi indipendente da Secondigliano. Bizzarro fu di fatto il primo scissionista del clan Di Lauro ed il suo omicidio finì per fare da spartiacque dagli anni di pace del cartello di Secondigliano alla prima faida di Scampia. Gli assassini indossarono quel giorno pettorine della polizia per intrufolarsi all'interno dell'albergo. Quando giunsero all'esterno della stanza dove Bacchettella si trovava in compagnia di una donna, non aspettarono neanche l'apertura della porta ed esplosero decine di proiettili, tanto efferato fu quell'omicidio di camorra da essere ripreso anche nella prima serie di Gomorra. La prima faida di Scampia cominciò praticamente in quel momento e proprio una nuova faida di Scampia era stata ipotizzato pochi minuti dopo la sparatoria nel Parco Padre Pio che ha portato alla morte del 'figlio' dell'autista dell'ex boss di Melito e a quella di Alessandro Laperuta ed al ferimento del 16enne Domenico, A., nipote dei superboss degli Scissionisti Raffaele Amato e Cesare Pagano.

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venerdì 17 giugno 2016

Microspia in casa dei fratelli 'Giuliano', ecco com'è stata scoperta la faida con i Mazzarella

NAPOLI. «A Forcella c’è la paranza dei bambini». Così una donna parlava con un’amica al telefono e raccontava quello che stava accadendo tra i vicoli del centro storico di Napoli. Da una parte il gruppo Amirante- Brunetti-Giuliano-Sibillo, dall’altra i Mazzarella-Del Prete, due gruppi di pregiudicati tra i 16 e i 24 anni che si contendevano le piazze di droga e il giro milionario delle estorsioni ai mercatini rionali. Dal 1 marzo del 2013 scoppiò la guerra di camorra costellata da numerosi agguati e pericolosissimi conflitti a fuoco tra i vicoli, scorribande di giovani armati «che volevano manifestare, anche nei confronti degli abitanti del quartiere, il potere di controllo del territorio», scrive il gip che ha firmato l’ordinanza. È questo lo scenario da dove partono le indagini che questa mattina hanno portato a 61 arresti; sette degli indagati sono minorenni e in totale 77 sono gli indagati a piede libero. Il gip parla del progetto della «paranza dei bambini» come un progetto «ambizioso», alimentato dalla voglia di essere boss dalla terza generazione dei Giuliano, la storica famiglia camorrista: Giuseppe Giuliano, i fratelli Antonio, Guglielmo e Luigi Giuliano jr e un loro cugino Salvatore Cedola. Motivo del contendere “gli enormi introiti derivanti dalle estorsioni agli ambulanti del mercato della Maddalena, oltre ai gestori di commerciali, ai parcheggiatori abusivi e storiche pizzerie del centro storico». 

«La guerra ha determinato, come traspare anche dalle conversazioni intercettate, un vero e proprio clima di terrore tra gli abitanti della zona, giustamente preoccupati di poter restare uccisi in uno degli scontri». Emblematico è il racconto dell’agguato avvenuto il 29 giugno del 2013 ai danni di un uomo raggiunto da un colpo di pistola sparatogli a distanza ravvicinata da uno sconosciuto, «verosimilmente solo per distogliere la Squadra Mobile dal fare irruzione nello stabile in cui era stato organizzato un vertice tra esponenti dei due schieramenti di camorra in conflitto». 

LA MICROSPIA. Un colpo da maestri e stata la svolta alle indagini è arrivata dal nulla: una microspia piazzata all’interno dell’abitazione dei fratelli Antonio, Luigi e Guglielmo Giuliano, i giovanissimi capi del nuovo clan. «Una attività di intercettazioni di eccezionale efficacia probatoria e addirittura -scrive il gip - essendo stata avviata nel cuore del conflitto armato ha portato alla conferma di importanti fonti probatorie». Così gli investigatori sono riusciti a seguire in diretta l’evoluzione dei rapporti interni al neo costituito gruppo camorristico, accertando, ad esempio la definitiva sottomissione del gruppo Del Prete, alle forniture di droga imposte dal nuovo clan.

I PENTITI. Sono sei i collaboratori di giustizia che hanno ricostruito tutti i passaggi delle estorsioni e dei fatti di sangue che hanno portato all’arresto 61 arresti, mentre in totale sono 77 gli indagati a piede libero. Sette invece sono i minorenni coinvolti nell’indagine. Tra le gole profonde della camorra ci sono Salvatore Russomagno,Giorgio Sorrentino, Antonio Della Corte, Antonietta Pacifico e Francesco Mazzarella, figlio di Gennaro e fratello di Alfonso. Lui ha dichiarato di essersi pentito per evitare di essere ammazzato.

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Camorra. La decapitazione del clan Sibillo, ecco chi potrebbe prendere il controllo

NAPOLI. Tregua e frammentazione: ecco le due parole che fotografano la situazione nel centro storico di Napoli, lato Vicaria. Se i Sibillo non sono finiti, e la maggior parte degli investigatori lo pensa, di certo il clan non è più forte come prima dell’operazione “Forcella liberata” del 9 giugno 2015. Nei vicoli dei Tribunali, ma soprattutto ai Decumani, storica roccaforte del gruppo del “Ninnillo” e dei figli, da mesi sono tornati in auge i Mazzarella e si rivedono volti da tempo dimenticati nel quartiere: la vecchia guardia della camorra che aveva ereditato dai Giuliano il controllo degli affari illeciti, salvo poi trovarsi a gambe all’aria con l’esplosione della“paranza dei bimbi”. Adesso però il quadro è nuovamente cambiato, a dimostrazione di quanto siano precari gli equilibri negli ambienti di malavita. Dunque, tra i Giuliano-Sibillo, decimati da arresti e condanne, e i Mazzarella, sempre potenti ma con pochi leader carismatici in libertà, al momento ci sarebbe un sostanziale pareggio. Da ciò la decisione di firmare una tregua, come dimostra l’assenza di sparatorie e intimidazioni a colpi d’arma da fuoco che si registrano da mesi. Ma gli investigatori che si occupano del quartiere hanno notato anche altro: una certa frammentazione all’interno dei due gruppi,tipica situazione di quando manca un unico boss. Nei centri dello spaccio, in particolare le piazze della zona più antica di Forcella, l’attività illecita starebbe continuando senza l’egida di un solo boss. A gruppetti,previo accordo, gli uomini del “sistema” vanno avanti dividendosi le zone. 

Nella zona più vicina ai Tribunali prevarrebbero invece i“mazzarelliani”. A Forcella le ultime voci che rimbalzano dal territorio confermerebbero la tregua a partire da marzo scorso, superata la fase di grossa tensione susseguente all’omicidio dell’innocente Maikol Giuseppe Russo, a Capodanno scorso. Ma di pace duratura però è presto per parlare, dicono informatori e confidenti, e c’è da giurarci: troppo profondo l’odio tra i Giuliano e i Mazzarella, protagonisti in zona di una faida che ha lasciato sul terreno anche vittime innocenti. Un simbolo per tutte: Annalisa Durante. Ed è passato più di un decennio. Gli arresti nelle file dei Giuliano-Sibillo,soprattutto dei giovani ras tranne uno, e nei nemici“mazzarelliani” hanno sicuramente tolto pressione ai commercianti e ristoratori della zona. Ma ciò non significa che il fenomeno estorsivo sia cessato improvvisamente,così come i traffici di droga con malavitosi di altri quartieri. Soprattutto nell’ombra si muoverebbero le nuovissime leve,composte ancora da giovani e giovanissimi almeno sul fronte Giuliano-Sibillo, e quindi altre battaglie attendono inquirenti e investigatori. Nessuno pensa infatti che la camorra a Forcella sia stata debellata. 

fonte: IL ROMA

Napoli. Forcella, basta «stese» e armi: ​la pax mafiosa dei Mazzarella

I colonnelli dello storico clan Mazzarella stanno tornando a Forcella per riprendere il controllo degli affari illeciti e gestirli come la vecchia scuola di camorra ha insegnato loro a a fare, senza clamori e senza rumore, nell'ombra, cercando di attirare il meno possibile le attenzioni di forze dell'ordine e nemici. Si fa leva su uomini tornati in libertà di recente, su affiliati di un tempo, insomma non più su ragazzini imprevedibili. Eccola Forcella il giorno dopo la sentenza che ha inflitto 43 condanne alla paranza dei bimbi e un anno dopo gli arresti che hanno fermato la scalata violenta dei babyboss. Nei vicoli non si spara più a caso, le stese non sono più la routine né si assiste ad atti di forza eclatanti come quelli che fino a un anno e mezzo fa hanno caratterizzato la vita nella casbah. Non vuol dire che la guardia si sia abbassata del tutto, ma è un segnale. C'è una tensione diversa, ci sono equilibri da ricomporre e affari da riprendere per non lasciare un vuoto di potere nel centro storico. Difficile ipotizzare un'avanzata da parte di clan di altri quartieri, ragionano gli inquirenti. Lì, in quel budello di vicoli e vicoletti, di bassi e palazzi che affacciano uno sull'altro, appare quasi impensabile un'incursione da fuori, da parte di chi non è della zona. Più probabile che i Mazzarella, che avevano conquistato un trono nella casbah già verso la metà degli anni Novanta con il matrimonio del loro rampollo Michele con Marianna Giuliano, figlia di Loigino, stiano studiando come ritornare e assumere di nuovo il pieno controllo su pizzo e droga. Possono contare su vecchi affiliati e su qualche luogotenente che nel frattempo, pagato il conto con la giustizia, è stato scarcerato e può tornare a muoversi liberamente tra i vicoli e i quartier generali della camorra che conta. Restano i Giuliano che, sebbene duramente colpiti dalla sentenza che ieri ha disposto la condanna per sette su nove componenti della famiglia coinvolti nelle indagini dei pm Francesco De Falco e Henry John Woodcock del pool Antimafia, non avrebbero mai abbandonato il loro ruolo criminale nel quartiere, occupando uno spazio oggi molto ridimensionato. Alcuni della famiglia hanno ripreso l'attività di magliari, ossia la vendita porta a porta di prodotti all'estero, soprattutto nell'europa dell'Est, affare storico che rende meno della droga ma comporta meno rischi. «Alla fine stiamo facendo i magliari - dicono intercettati, due cugini dei Giuliano di Forcella - storto o morto non è niente di chi sa che ma...», si commenta e i dialoghi sono finiti agli atti del processo conclusosi l'altro giorno. «Oggi so comprare per esempio dieci magliette e vado dai compagni miei, uno dà una mano, uno dà un'altra e le vendo e mi guadagno qualcosa, prima ero più piccolo e non lo sapevo fare nemmeno». Sembrano lontani i tempi degli spari tra i vicoli per dire «Ci siamo», delle azioni di forza al grido di «Forcella ai forcellani», degli agguati per vendicare offese o sguardi di troppo, una sigaretta negata o un no a vendere droga per conto dei babyboss.

La Gomorra a Forcella non ha avuto bisogno della fiction per sperimentare la ferocia criminale e alzare il livello della crudeltà e della sfrontatezza, della prepotenza e della volgarità. Quando decisero di scalzare i fedelissimi dei Mazzarella a costo di scatenare una guerra, i boss ragazzini, uniti nel cartello Giuliano-Sibillo-Brunetti-Amirante, sceglievano killer minorenni («è una tecnica dei nuovi Giuliano, quella mandare i ragazzi più giovani a sparare, i minorenni» ha svelato un pentito), provavano le armi nuove in strada mirando persino ai passanti e per colpire il clan rivale mettevano in conto di aprire il fuoco anche a costo - come è accaduto in due circostanze - di coinvolgere un innocente. Finora le indagini non hanno consentito di provarlo, ma è forte tra gli inquirenti il sospetto che in questo scenario vada inserita l'assurda morte del 26enne georgiano che la sera della Vigilia di Natale di due anni fa mentre era sul divano di casa a guardare la Tv, al quarto piano di un palazzo in via delle Zite, fu centrato alla testa da un proiettile vagante, arrivato dalla strada. Dinamica agghiacciante, storia di una Gomorra reale. Vita a Forcella tra i vicoli resi inferno da criminali ragazzini che hanno venduto droga, e che a volte l'hanno pure presa per darsi più adrenalina, che hanno speso migliaia di euro in champagne e discoteche, abiti griffati e pistole, che si sono fatti pagare 100 euro per scendere in strada e sparare e magari anche uccidere, che si sono vantati della loro ferocia e delle pistole sempre nuove che impugnavano («Non tengo una pistola con un poco di ruggine intorno»), che alla diplomazia hanno sempre preferito le armi, che volevano fare i capi e si sono ritrovati a fuggire dagli 007 dell'Antimafia, che alla fine li hanno stanati tutti e arrestati, e dai killer dei clan nemici, che li hanno colpiti e lasciati cadavere sull'asfalto di un marciapiede dove c'è sempre chi si volta dall'altra parte. «Chiavai una botta in petto a un nero» confida uno dei giovani Giuliano al cugino. «Cadde a 20 metri il nero». «Aeh, eh..». E seguono risatine. Hanno ferito un cittadino del Bangladesh con un colpo di pistola in petto solo per provare l'efficacia dell'arma. Il povero indiano se l'è cavata con 20 giorni di convalescenza ma ha rischiato la vita. «Mi vuoi far provare quella sette?»: l'idea di testare la pistola nuova era venuta così, all'improvviso, parlando del più e del meno mentre tutta la famiglia è riunita in casa Giuliano in vico Carbonari, la sera della Vigilia di Capodanno poco prima del cenone. «Vedi di non perderla...», era stata l'unica raccomandazione captata dalla microspia grazie alla quale si sono ricostruite, quasi in tempo reale, molte delle azioni del gruppo.

Forcella e l'omertà. In questo grigiore, uno spiraglio di luce sembra darlo la storia di Dora, trentenne e tre figli piccoli a cui fare da madre e da padre. L'ultima è nata pochi giorni dopo la morte del marito, ucciso in un agguato di camorra perché - lo hanno ricostruito le indagini e una recente sentenza lo ha confermato in primo grado, condannando all'ergastolo il presunto killer - aveva rifiutato di gestire una piazza di droga per i Giuliano-Sibillo, avendo deciso, dopo una condanna scontata in carcere per legami con il vecchio clan Misso della Sanità, di chiudere con il malaffare e mettersi a lavorare per la ditta di costruzioni del padre lontano da Napoli, in Veneto. Dora è la moglie di Massimiliano di Franco, ucciso il 26 febbraio 2014 in via Porta San Gennaro. Ha avuto il coraggio di denunciare il presunto assassino del marito, raccontando cosa accadde nei giorni che precedettero l'agguato e quando il marito agonizzante annuì alla domanda di lei: «E' stato Alessandro?». Dora da allora continua a vivere nel suo quartiere, nella sua casa a pochi metri dal luogo dell'agguato al marito e dalla casa dei familiari di Alessandro Riccio, il giovane accusato di essere il killer di Di Franco. Ha avuto coraggio e ne ha ancora, esempio di come la disperazione e il dolore possano essere più forti dell'omertà e della paura. Eppure più volte agli inquirenti ha manifestato le sue preoccupazioni per gli sguardi truci che deve sopportare. Non è facile e sembra anche un controsenso. Ma nella Gomorra dei vicoli accade anche questo. E si tira avanti.

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giovedì 16 giugno 2016

Tensione a Secondigliano, implosione nella Vanella Grassi. È faida con i «fuoriusciti»

NAPOLI. Prima gli scissionisti. Quelli che nel 2004 presero le distanze dal clan Di Lauro innescando una spirale di sangue e violenza con lontani precedenti. Poi i girati, i ragazzi di via Dante, che da fedeli dei Di Lauro si sono messi in affari con gli Amato-Pagano salvo poi smarcarsi pure da questi ultimi e rimanere in ottimi rapporti con i vecchi e nuovi amici. E infine i fuoriusciti. I fuoriusciti dagli Amato-Pagano e pure dalla Vanella Grassi, che puntano a fare la guerra alle «case madri» in nome del solito controllo di qualche piazza di spaccio. 

Area nord di Napoli, anno 2016. Nella camorra locale si apre un nuovo capitolo. Una nuova storia di tensione che ha già provocato diversi morti. Una storia che ha per protagonisti loro, i «fuoriusciti», una figura sino ad oggi inedita per le cronache. I gruppi che ringhiano contro i ‘vecchi’ padroni sono due e si muovono tra le zone di Secondigliano e Melito, che non a caso sono tornate ad essere teatro di omicidi e di allarmanti episodi di criminalità. 
Partiamo da Secondigliano, dove nelle ultime settimane si sono verificati due eventi che hanno fatto suonare il campanello della faida: lo scorso 5 giugno un commando di malavitosi ha aperto il fuoco lungo il corso Secondigliano per una «stesa» ed uno dei proiettili ha ferito una ragazza di 21 anni che era affacciata al balcone; il 7 giugno una nuova «stesa», sempre sul corso Secondigliano, che ha rischiato di costare la vita ad una donna e alla sua bambina che viaggiavano in macchina al momento degli spari (alcuni proiettili hanno bucato la carrozzeria della vettura). 

Sono gli ultimi segnali di una contrapposizione che ha iniziato a bruciare nell’ottobre dello scorso anno quando a San Pietro a Patierno è stato ucciso il 21enne Domenico Aporta, mentre suo fratello Mariano riuscì miracolosamente a salvarsi dalla pioggia di piombo. Una contrapposizione – emerge da indiscrezioni investigative – tutta interna alla Vanella Grassi. Già, i «girati» sono implosi. Come accadde ai Di Lauro nel 2004, e come è accaduto agli Amato-Pagano tra il 2011 ed il 2012. C’è un gruppo di facinorosi che s’è rivoltato contro ciò che è rimasto della Vanella Grassi, decimata dagli arresti e affossata dalle condanne che pure stanno arrivando a pioggia. E quel gruppo, già ribattezzato i «fuoriusciti», sta scalciano per un posto al sole nel mondo del crimine organizzato. 

di Manuela Galletta, Metropolis.it

Summit di camorra durante i festini con cantanti neomelodici in casa di insospettabili

NAPOLI. Il clan Lo Russo e in particolare il boss oggi pentito Mario, organizzava summit di camorra, festini e braciate con cantanti neomelodici nelle abitazioni di parenti e amici incensurati degli affiliati. Un’abitudine andata avanti negli anni, ma che si è interrotta quando Giulio De Angioletti e il “Capitone” la fecero grossa: secondo l’accusa, portarono e nascosero un grosso quantitativo di droga all’insaputa del padrone di casa. Il quale, a quel punto, non ci vide più e litigò furiosamente con il congiunto fino alle mani. Successivamente non gli restò altro che denunciare tutto alla polizia. In uno dei party, a detta dell’uomo, avrebbero partecipato anche esponenti dei Cimmino e dei Bosti: ospiti, invitati a partecipare agli incontri e non coinvolti nella vicenda dello stupefacente. 

Per le pressioni sull’incensurato in relazione all’uso di un appartamento privato e altri “favori”, la Procura (fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’eventuale condanna definitiva) contesta i reati di violenza privata e tentata estorsione a Mario Lo Russo, Giulio De Angioletti, Riccardo Lama e Antonio Festa, questi ultimi due colletti bianchi coinvolti nell’inchiesta sui rapporti tra il clan di Miano e la società “Kuadra” con sede napoletana in via Diocleziano. Luogo in cui i poliziotti della sezione P.A. della squadra mobile della questura hanno piazzato una microspia che ha sortito i frutti sperati. 

L’incensurato vessato da Giulio De Angioletti, dopo il litigio con il parente e prima di mettere nero su bianco con la polizia, scrisse due memoriali trovati e sequestrati dagli investigatori nel corso di un controllo nell’autoparco del Cardarelli, dove lavora C.F., incensurato. Ecco alcuni passaggi del testo di uno di essi, redatto presumibilmente per lasciare una traccia nel caso gli fosse capitato qualcosa in futuro. “Oggi, 4 agosto 2014, ho aggredito il signor Giulio De Angioletti, il quale è a pieno titolo un esponente di primo livello del clan Lo Russo di Miano. L’aggressione è stata provocata da mesi e mesi di continue vessazioni e minacce. Da premettere che tra me e De Angioletti Giulio corrono vincoli di parentela e che il sottoscritto precedentemente non ha mai avuto rapporti con la malavita. Il De Angioletti Giulio. minacciandomi, ha usato la mia casa per ricevere in un summit camorristico il sig. Mario Lo Russo, il sig. Cimmino e altri uomini pregiudicati tra cui Enzo Lo Russo detto "O' Signor", capi del clan Contini tra cui Bosti "O' Russo". 

In un'occasione particolare Mario Lo Russo, accompagnato da Giulio De Angioletti, aveva trasportato a casa mia e a mia insaputa 23 chili di droga divisa in tre chili; cocaina in panetti da un chilo e il restante in erba in buste di plastica da un chilo ciascuna. Impaurito e minacciato ho cercato di esprimere il mio disappunto ma loro hanno minacciato me e i miei familiari che, inconsapevoli come il sottoscritto, hanno dovuto subire violenze psicologiche". 

IL ROMA

Ucciso per una sigaretta: killer della “paranza dei bambini” condannato a 20 anni

Di Dario Moio

NAPOLI – Vincenzo Costagliola è stato condannato a 20 anni di galera all’interno del processo che ha portato alla sbarra la “paranza dei bambini”. Il giovane è ritenuto responsabile dell’omicidio di Maurizio Lutricuso, 24 anni, ucciso il 9 febbraio 2014 nel parcheggio di una discoteca di Agnano.

Dopo alcune scintille tra due gruppi di ragazzi, Lutricuso fu attirato all’esterno e con la scusa di una sigaretta negata, fu aggredito dai killer: contro di lui furono esplosi diversi colpi di pistola che lo ferirono mortalmente all’addome e al torace. A nulla valse l’intervento degli uomini della sicurezza del locale: il ragazzo morì poco dopo all’ospedale San Paolo.

Il killer fu incastrato grazie alle intercettazioni, stava raccontando ad un amico la dinamica dell’omicidio: “L’ho schiattato con sette botte in petto. Ti è piaciuto?”.

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mercoledì 15 giugno 2016

Camorra, duplice omicidio alla Sanità: arrestato Daniello

Napoli – Nella tarda serata di lunedì, gli agenti della squadra mobile di Napoli e del Servizio centrale operativo, con il supporto tecnico di personale specializzato della Scientifica, hanno rintracciato in viale delle Nebulose 9, Alessandro Daniello, 27 anni, destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere poiché ritenuto responsabile, in concorso con altri indagati, del duplice omicidio di Giuseppe Vastarello, 42 anni, e di Salvatore Vigna, 41, nonché del tentato omicidio di altre tre persone, reati aggravati dalle modalità mafiose (guarda articolo e video)

Il provvedimento restrittivo scaturisce dalle indagini svolte dalla Mobile partenopea, con il coordinamento della locale Direzione distrettuale antimafia, a seguito del grave fatto di sangue, avvenuto lo scorso 22 aprile presso il circolo privato “Madonna Santissima dell’arco”, in via delle Fontanelle 139, alla Sanità, per il quale, il 9 maggio sono stati già sottoposti a fermo altri quattro indagati, Antonio Genidoni, Emanuele Salvatore Esposito, alias “soffietto”, Addolorata Spina e Vincenza Esposito, tutti ritenuti responsabili degli stessi reati.

E’ emersa la responsabilità di Daniello, sodale al gruppo criminale di Antonio Genidoni e Piero Esposito, quest’ultimo vittima di agguato lo scorso 14 novembre in piazza San Vincenzo alla Sanità, per il duplice omicidio dello scorso 22 aprile presso il circolo ricreativo, ritenuto il punto di ritrovo del clan camorristico rivale riconducibile alla famiglia “Vastarella”.

In ragione delle possibili ripercussioni ad opera del gruppo criminale dei Vastarella, Daniello ha abbandonato la propria casa, ma è stato rintracciato e arrestato.

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venerdì 10 giugno 2016

Ciro, l’ultima vittima innocente della camorra: una scia di sangue che conta oltre 150 morti

Di Dario Moio

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NAPOLI – La camorra continua a sparare. I killer hanno agito nel tardo pomeriggio di ieri a Ponticelli all’angolo tra via Bartolo Longo e via Cleopatra. Prima di dileguarsi a piedi tra i vicoli delle palazzine, sull’asfalto hanno lasciato i corpi senza vita di due ragazzi, due storie diametralmente opposte ma accomunate dallo stesso destino.


Il camorrista. Raffaele Cepparulo, 25 anni, era considerato uno dei boss della paranza dei “barbudos”: faccia cattiva, barba incolta e tatuaggi di malavita in bella vista. Un uso continuo dei social network, su cui ostentava e alimentava la sua ambizione criminale: come richiede la nuova camorra 2.0. Puntava ad ottenere il controllo delle piazze di spaccio del centro storico e per arrivare al suo scopo aveva iniziato una guerra contro il clan Vastarella al fianco della famiglia Giuliano-Sibillo. Cepparulo venne arrestato ad aprile dello scorso anno mentre, in compagnia di altre tre persone, era appostato in un vicolo della Sanità per compiere un agguato. Dopo appena sei mesi fu scarcerato per decorrenza dei termini e, per sfuggire alla ritorsione dei clan, si era rifugiato proprio a Ponticelli. La sua breve e intensa carriera criminale è stata interrotta ieri, inchiodata sull’asfalto, in pieno giorno.


L’innocente. Insieme a lui su quel maledetto marciapiede è andato giù anche Ciro Colonna, 19 anni. Non aveva documenti con sé e, come spesso accade in queste situazioni, tutti hanno pensato che fosse un sodale del boss, magari il suo guardaspalle. E invece Ciro era proprio lì per caso, seduto ad uno dei tavolini del circolo con gli amici di sempre. È stato colpito alle spalle mentre scappava, forse perchè aveva visto in faccia i killer, o forse perchè si trovava troppo vicino al loro obiettivo e, nel dubbio, meglio “stendere” anche lui. Il giorno dopo, quando tutti hanno compreso che Ciro è una vittima innocente, resta il dolore dei familiari e degli amici. Qualcuno tra i più stretti lo ricorda con una foto su Facebook in cui il giovane e altri tre amici sono seduti a tavola con il lungomare di Napoli a fare da sfondo: “Resteremo sempre in quattro“, recita il post.

Ciro, Annalisa, Pasquale, Gelsomina, si allunga sempre di più la lista dei nomi delle vittime innocenti della camorra: alcune stime parlano di oltre 150 morti per un proiettile vagante, per una parentela sbagliata o per uno scambio di persona. Come Attilio Romanò, ucciso nel 2005 dai sicari di Marco Di Lauro nel suo negozio di telefonia perchè scambiato per un affiliato. Come Pasquale Romano, la cui storia è stata narrata nell’episodio 9 di Gomorra, freddato per errore il 15 ottobre del 2013 nella sua auto a Marianella. L’ultimo in ordine di tempo era stato Gennaro Cesarano, 17 anni, ucciso in piena notte nel cuore della Sanità. Anche lui si trovava al posto sbagliato al momento sbagliato: i killer avevano bisogno di “fare il morto” per affermare il loro dominio su quella zona, non importava “chi”.

La scia di sangue delle vittime innocenti sfata ancora di più uno stereotipo molto radicato nella mentalità napoletana: “finchè si uccidono tra di loro”, come se i camorristi vivessero in una riserva. Invece la camorra vive in mezzo a noi e quando si avvicina può far male. Per quanto tempo ancora dovremo piangere i “nostri” morti?

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mercoledì 8 giugno 2016

Fu uccisa e sepolta a Melito, la donna del clan che viveva da uomo. Svolta nelle indagini

arrivoli melitoMELITO – Un ammanco di 40mila euro. E’ una delle piste seguite dagli inquirenti per l’omicidio di Giovanna Arrivoli (nella foto), 41enne uccisa a colpi d’arma da fuoco e poi gettata in un fosso in via Giulio Cesare, area degradata e periferica di Melito. La donna gestiva un bar in via Lussemburgo, famigerata piazza di spaccio dell’hinterland a nord di Napoli. Per le forze dell’ordine il locale era una sorta di base di contanti e droga per conto del clan Amato-Pagano.

Le indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo di Castello di Cisterna, agli ordini del maggiore Michele D’Agosto, insieme ai carabinieri della locale tenenza, diretti dal comandante Francesco Tessitore e ai colleghi al comando del capitano della Compagnia di Giugliano Antonio De Lise, proseguono senza battute d’arresto. L’attività investigativa si concentra sulla vita privata della donna e sulle sue frequentazioni. La vittima del delitto, nota con l’appellativo di ‘Gio’, è risultata anche cognata di Cannine Borrello, noto come ‘Carminiello ‘, raggiunto nelle passate settimane da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per droga. Anche nel passato di Giovanna c’era una condanna per stupefacenti.

Ed è proprio su questo fronte che si stavano muovendo gli 007 dell’Arma. Tra le prime piste quella di un omicidio maturato per una partita di droga non pagata, I funerali sono stati celebrati in forma privata per questioni di ordine pubblico, così come disposto dalle istituzioni preposte. L’unica persona fermata per il delitto di Arrivoli è stata scarcerata. L’uomo di Marigliano era stato accusato di occultamento e soppressione del cadavere. Il provvedimento di scarcerazione è stato emesso dal gip di Noia, Sebastiano Napolitano, “per insufficienza dei gravi indizi di colpevolezza costituiti dal contenuto di intercettazioni telefoniche”.

Difeso dagli avvocati Celestino Gentile e Luigi Senese, l’uomo è tornato in libertà. A portare al suo fermo erano stati il gps del suo telefonino e, soprattutto, le impronte digitali trovate su una pala. La scomparsa della donna era stata denunciata lo scorso 7 maggio. Di lei si erano perse le tracce da due giorni prima del rinvenimento del cadavere fatto da un rigattiere che si aggirava in quella zona. Arrivoli è stata ammazzata con tré colpi di pistola: due alla testa, uno al torace. Una vera e propria esecuzione di stampo camorristico. A farlo pensare anche la modalità del delitto. Il suo capo era rivolto verso il terriccio.

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Scissionisti in guerra a Melito. La regia di un uomo del clan dietro gli ultimi agguati

MELITO. Dapprima gli hanno tolto i gradi di socio della piazza di spaccio più redditizia per il clan, poi l’hanno cacciato. Innescando una reazione, rabbiosa, che rischia di accendere la miccia di un nuovo conflitto di camorra. C’è la storia del demansionamento di un personaggio che conta nella camorra a nord di Napoli dietro gli ultimi episodi di sangue che hanno mandato in fibrillazione gli Amato-Pagano, solidi come una roccia nella gestione degli affari illeciti tra Melito e Mugnano. C’è la storia di un fuoriuscito che ora brama vendetta e che, forse, ha trovato la sponda in un clan che opera non lontano dai suoi vecchi amici. 

Ruota tutto attorno alla figura di Elia Cancello, il cui nome è ricorso spesso negli atti delle passate indagini sui clan che strisciano tra Secondigliano, Scampia e i comuni della cintura a nord di Napoli. Trentuno anni, Elia Cancello muove i suoi passi all’ombra del gruppo Bastone, noti narcos degli scissionisti della prima ora del clan Di Lauro e poi gestori stabili della piazza del Lotto K di comune accordo con la Vanella Grassi quando nel 2012 gli Amato-Pagano si frantumano in più pezzi e diverse famiglie rivendicano una propria autonomia criminale, a cominciare dalla Vanella Grassi sino ad arrivare al blocco Abete-Abbinante-Notturno.

Elia Cancello si distingue, sino a tornare in pianta stabile sotto l’ombrello degli Amato-Pagano che, pure a corto di uomini che contano nell’ambito della famiglia, decidono di promuoverlo, facendogli scalare in tutta fretta la scala gerarchica del potere. Elia Cancello diventa socio della più fiorente piazza di spaccio del clan, la cosiddetta ‘219’ di Melito. E, come se non bastasse, viene delegato pure a partecipare per conto della famiglia ad un summit con esponenti della Vanella Grassi e dei Sibillo per la compravendita di armi o di droga. Elia Cancello macina soldi. Ma brucia la fiducia guadagnata a poco poco. Contravviene, è il sospetto, ad alcune regole non scritte nella gestione dei soldi macinati dalla piazza a lui affidata e s’attira pure le antipatie dei ‘sottoposti’. Col risultato che i vertici degli Amato-Pagano decidono di intervenire per ristabilire gli equilibri. Ed è qui che si consuma lo strappo. Elia Cancello – recitano gli ultimi atti di indagine – si ritrova da socio a mero gestore del ‘punto vendita’.

Dalle stelle alle stalle. E la cosa a questo 31enne che sognava un giorno di fregiarsi del titolo di boss non va a genio. Tanto che si verifica l’imprevisto. Elia Cancello fa armi e bagagli e sparisce. Via da Melito. Via dall’abbraccio degli Amato-Pagano. E a questo punto iniziano i problemi. Tra il 18 ed il 19 maggio scorso Pietro Caiazza, zio dei pentiti Antonio e Paolo (ex killer al soldo degli Amato-Pagano), scampa per miracolo ad un agguato mentre è in auto, insieme alla moglie, sull’asse mediano: due persone in macchina lo affiancano e il passeggero esplode oltre dieci colpi di pistola al suo indirizzo; a segno vanno solo un paio di proiettili e Caiazza riesce a raggiungere da solo l’ospedale. Se la cava.

Poche settimane prima Giovanna Arrivoli non è stata altrettanto fortunata . Sequestrata, forse torturata, uccisa e poi sepolta. Gestiva un bar nella “219” e gli inquirenti sospettano che quel locale fosse un appoggio per soldi e droga della famiglia. Due agguati e una pista da seguire. La scissione di Elia Cancello. La sete di vendetta di quel 31enne che, molto probabilmente, potrebbe aver orchestrato l’agguato a Pietro Caiazza: Caiazza ha preso infatti il suo posto, dopo aver vissuto a sua volta un periodo di oblio. Ed Elia Cancello potrebbe aver deciso così di lanciare un segnale agli Amato-Pagano che l’hanno defenestrato. Più fumoso, invece, il quadro investigativo sino ad ora tracciato per l’omicidio di Giovanna Arrivoli. legare la morte della donna ad un possibile movente è complicato. Resta la certezza della ribellione di Elia Cancello e il sospetto che il 31enne abbia incassato il sostegno di un altro gruppo malavitoso. Sullo sfondo una situazione incandescente che rischia di esplodere in faida. 

di Manuela Galletta, Metropolis

Duplice omicidio di Camorra a Napoli, uccisi due uomini del gruppo di fuoco degli Esposito-Genidoni

NAPOLI. Duplice omicidio nel pomeriggio a Ponticelli, dove sono caduti sotto i colpi dei killer due uomini. L'agguato è avvenuto in via Cleopatra. Una delle vittime è morta sul colpo, mentre il secondo appena giunto in ospedale al Villa Betania. Le due vittime non avevano documenti con loro e sono in corso accertamenti circa la loro identità. I morti sono Raffaele Cepparulo, 25 anni (nella foto), deceduto sul posto; l'altro, Ciro Colonna, 19 anni, è finito a villa Betania, dov'è arrivato in condizioni disperate con mezzi privati. Sono stati esplosi numerosi colpi di pistola. Da quanto si apprende, la vittime sono state colpite anche al volto. 

L'ultimo omicidio a Ponticelli si è consumato il 7 marzo scorso quando a finire sotto i colpi dei killer fu Giovanni Sarno, fratello dell'ex boss dell'omonimo clan, ora collaboratore di giustizia, Carmine Sarno. Il corpo fu ritrovato in casa con due colpi di pistola alla testa. 

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Sparatoria a Ponticelli, ucciso il boss dei Barbudos

Di Sabrina Pirozzi

NAPOLI – E’ Raffaele Cepparulo, 25 anni e leader dei Barbudos, uno dei due uomini uccisi questo pomeriggio a Ponticelli in una sparatoria. L’altro è Ciro Colonna, 19 anni, morto a villa Betania dov’era arrivato in condizioni gravissime.


Cepparulo è il leader del gruppo criminale detto Barbudos, che mira al controllo delle piazze di spaccio e del racket nella zona del centro di storico di Napoli e che da oltre un anno è in guerra con i Giuliano-Sibillo. Il gruppo criminale emergente è così definito per il look islamico (barbe folte) dei suoi affiliati e per i nomi dei morti ammazzati che hanno tatuati sul corpo.

Lo stesso Cepparulo, come si può vedere nelle foto pubblicate sul suo profilo facebook, ha su tutto il copro tatuati i nomi delle sue vittime.

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Gomorra 2. I ragazzi del vico, ecco i nomi dei veri camorristi a cui si fa riferimento

di Luciano Mottola

I personaggi di O'track, Cap e' bomb e O'Cardill sono ispirati a uomini dellla malavita prima vicini ai Di Lauro e poi agli Scissionisti.

NAPOLI. Hanno "la guerra in testa'' come hanno più volte dimostrato in questa seconda serie di Gomorra, ma come avevano fatto già largamente intravedere nelle prime puntate. Sono i ragazzi del vico, guidati da O'track, Capa e' bomb e O'Cardill, che dopo aver deciso di staccarsi dai Savastano, stanno creando non pochi problemi all'alleanza retta da Ciro Di Marzio, al punto che O'track ha finito per lasciarci le penne, dopo aver tentato di ammazzare il figlio di Chanel.

Dalla fiction alla realtà il passo è breve visto che sono tanti i punti di comunanza tra i ragazzi del vico e quelli della Vanella Grassi, protagonisti della terza faida di Scampia. I ragazzi del vico passano con agilità da giovani leve dei Savastano (esisteva un forte rapporto di amicizia tra Genny, O'track e gli altri) ad alleati degli Scissionisti, prima di cambiare nuovamente versante criminale tornando con il vecchio padrino.

Una storia, quella raccontata nella fiction, molto simile a quella che ha visto protagonisti nella sanguinosa realtà napoletana Salvatore Petriccione e i nipoti Fabio Magnetti, Rosa­rio Guarino e Antonio Mennetta, che durante la faida del 2004-2005 costitui­vano l’originario gruppo di fuoco di Marco Di Lauro, passati poi con gli scissioni­sti nel 2010. Non fu inizialmente d'accordo con la decisione del gruppo Antonio Mennetta, all'epoca dei fatti in carcere. Lo stesso Mennetta però, una volta fuori dalla cella, seguì il percorso tracciato dai suoi parenti e compagni di clan, fino all'ulteriore giravolta che portò quelli della Vanella a riavvicinarsi ai Di Lauro, guadagnandosi così il nome di Girati per la loro facilità nel cambiare continuamente alleati, funzionali al proprio accrescimento criminale con la conquista di nuove piazze di spaccio.

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