sabato 3 dicembre 2016

Camorra. Condannato il boss Mimì 'o sfregiato, sorpresa per i suoi luogotenenti

NAPOLI. Come è noto, negli anni scorsi la Autorità giudiziaria napoletana aveva affermato la esistenza di una pericolosa organizzazione camorristica nel quartiere di Fuorigrotta della città partenopea, capeggiata da Domenico D’ausilio, soprannominato “Mimi ‘o sfregiato”. I giudizi di merito avevano affermato la esistenza del clan, con decisione di primo grado emessa in data 18.07.14 dal Tribunale di Napoli - I sezione -, confermata quasi integralmente in data 26.01.15 dalla Corte di appello di Napoli - VI sezione -. Numerosi erano i reati contestati: associazione a delinquere di stampo mafioso, due ipotesi di tentato omicidio, estorsioni, rapine, droga ed armi. In appello la più forte riduzione della pena la ottenne Tripodi che passò da anni 29 ad anni 23 di reclusione a fronte della esistenza di ben dieci reati a suo carico, tutti di matrice mafiosa. L’epilogo del processo in cassazione è stato per alcuni aspetti sorprendente . La Corte Suprema di Cassazione - V sezione – ha confermato la sentenza di condanna di anni 26 di reclusione nei confronti del capo clan Domenico D’Ausilio, difeso dagli avvocati Krogh ed Aricò, confermando in toto quella resa dalla Corte . I giudici di legittimità hanno ridotto la pena di mesi sei nei confronti di Scarpa Luca, difeso dall’avv. Francesco Liguori, la cui pena passa da anni tredici di reclusione ad anni dodici e mesi sei. 

Ma la parte più significativa della decisione assunta dal massimo consesso riguarda i luogotenenti del boss, Tripodi e Marigliano, nell’interesse dei quali ha preso la parola in cassazione l’avvocato Dario Vannetiello del foro di Napoli il quale, cavalcando i ben diciassette motivi di ricorso da lui redatti nonché quelli a firma degli avvocati Mauro Valentino e Riccardo Ferone (che avevano anche difeso i predetti nei giudizi svolti innanzi alla A.G. napoletana) ha indubbiamente inciso sulle gravi accuse ed obiettivamente portato significativi benefici agli accusati.
Infatti, per Tripodi è stata esclusa la pesante aggravante dell’ essere uno dei capi del clan, nonché è stato assolto sia dal reato di rapina presso una gioielleria della città sia dal reato di detenzione di sostanza stupefacente. Conseguentemente, dovrà svolgersi un nuovo giudizio in sede di rinvio innanzi alla Corte di appello di Napoli per la individuazione della pena che dovrà essere sicuramente più ridotta, nuovo giudizio ove dovranno essere valutati gli scritti difensivi degli avvocati Mauro Valentino e Riccardo Ferone. Annullata anche la sentenza di condanna ad anni 23 nei confronti di Marigliano Gennaro, ritenuto il killer del gruppo; anche per lui la sentenza di condanna non è divenuta definitiva e dovrà essere svolto un nuovo giudizio per individuare la pena che merita Marigliano per aver partecipato alla associazione nonché per aver partecipato alla associazione a delinquere di stampo mafioso.
Questa è la seconda volta in soli tre mesi che Marigliano e Tripodi all’esito del giudizio della cassazione, grazie al sapiente lavoro dell’avvocato Dario Vannetiello, in accoglimento delle tesi giuridiche devolute con gli articolati ed approfonditi ricorsi, ottengono l’annullamento della condanna all’ergastolo la prima, l’annullamento della condanna ad anni ventitrè la seconda ed ultima volta. Infatti, il recente annullamento disposto dalla quinta sezione penale della Suprema Corte segue un altro annullamento disposto nel mese di settembre dalla prima sezione della Suprema Corte afferente ad una sentenza di condanna all’ergastolo per plurimi casi di omicidio commessi da Tripodi e da Marigliano nell’interesse del clan, per i quali dovrà parimenti svolgersi un nuovo giudizio per la rideterminazione della pena . Quindi, la parola fine sui processi ai luogotenenti di D’Ausilio, Tripodi e Marigliano, miracolati dai due annullamenti decisi a Roma, ancora non è stata scritta. Occorre attendere il deposito della motivazione delle due sentenze della cassazione, e, ancora di più, attendere l’esito dei due distinti giudizi di rinvio che si dovranno tenere, l’uno presso la Corte di assise di appello, l’altro presso la Corte di appello.

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La guerra del pane tra Giugliano e Napoli: pestaggi e faida sfiorata tra le fazioni del clan Mallardo

di Antonio Mangione

GIUGLIANO. E' ritenuto il dominus del business dell'imposizione del pane, un affare che ha consentito al clan Mallardo di guadagnare fior di milioni e riciclare anche i soldi. Un'attività criminale per la quale valeva anche la pena 'fare la guerra' con quelli che dovrebbe essere alleati e che invece erano diventati diretti concorrenti sul mercato. Parliamo di Salvatore Lucente, genero del boss Francesco Mallardo e Anna Aieta, avendo sposato la figlia Rosa. All'imprenditore, finito in manette nell'operazione eseguita congiuntamente da Finanza, Polizia e Dia, è contestata tra l'altro l'imposizione del pane nelle attività commerciali di Giugliano. Gli inquirenti hanno posto sotto sequestro alcune attività commerciali facenti capo a Lucente, tra cui il Panificio Campano Srl a Casoria e l'Antico Panificio di Varcaturo. 
Della guerra scatenatasi per il controllo del mercato del pane nell'hinterland ne hanno parlato diversi collaboratori di giustizia tra cui Vincenzo De Feo, Tommaso Froncillo e Giuliano Pirozzi. Proprio quest'ultimo ha raccontato come 'l'affare pane' fosse inizialmente sotto il controllo esclusivamente di Giuliano Pianese, detto Giulianello 'o sicc, titolare de 'La Panificazione', il quale era legato a sua volta al clan Mallardo attraverso Feliciano. Quando Ciccio e' Carlantonio decise di entrare nel business affidò al genero Lucente il compito occuparsene. La scelta provocò non pochi malumori in Pianese, tant'è che quest'ultimo chiese a Feliciano di intervenire per risolvere la questione. 
A fare da intermediari tra i due - secondo il pentito Pirozzi - sarebbero stati Armando Palma, detto Armanduccio 29, arrestato qualche settimana fa per l'estorsione al cantiere Piu Europa, Francesco Napolitano, Peppe dell'Aquila ed il boss di Villaricca Mimì Ferrara. L'accordo fu trovato tra non poche difficoltà ed inizialmente prevedeva che uno avrebbe distribuito solo i panini, l'altro invece i pezzi di pane. Poi si decise di dividere le zone. Lucente avrebbe dovuto operare solo a Napoli, mentre Pianese a Giugliano. Lucente, però, non rispettò le disposizioni sconfinando anche nel Giuglianese e ciò scatenò la dura reazione della fazione opposta, la quale iniziò a fare spedizioni punitive ai corrieri che trasportavano il pane senza autorizzazione a Giugliano per conto di Lucente. La situazione 'si risolse' dopo l'operazione giudiziaria ai danni di Pianese, che portò il genero di Ciccio Mallaro a prendere il predominio sul territorio. 
Il colletto bianco del clan, inoltre, ha riferito del ruolo svolto nell'affare della panificazione dai fratelli Ciro e Giovanni Nadi De Fortis, soci di Lucente, dotati di competenze nel settore, tanto da estendersi fino a Latina. Secondo il collaboratore Teodoro De Rosa anche Anna Aieta avrebbe spinto Lucente ad avviare l'attività nel settore della panificazione, facendo pressioni affinchè le attività del genero fossero favorite rispetto a quelle di Pianese. Lucente e De Fortis sono stati intercettati mentre, discutendo dei problemi provocati da Pianese, discutono del da farsi. "...ma che dobbiamo fare...dobbiamo scendere in campo noi??!!", mostrando unità d'intenti del gruppo di Ciccio Mallardo. Il pane veniva imposto non solo nei piccoli negozi, ma anche in grandi supermercati con un tentativo anche nella catena della grande distribuzione.

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giovedì 10 novembre 2016

Nuova condanna per Pasquale Sibillo, il boss della “paranza dei bambini”

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By Sabrina Pirozzi


NAPOLI – Una nuova condanna per il boss Pasquale Sibillo, capo della cosiddetta “paranza dei bambini”. Il baby boss, già in carcere, è stato condannato a dieci anni di reclusione per traffico e spaccio di stupefacenti.

Condannato a 12 anni di carcere anche il padre, Vincenzo Sibillo, e Alessandro Riccio, elemento di spicco del clan, che dovrà scontare 14 anni.

A restanti imputati – complessivamente 15 – sono state comminate pene variabili tra 6 e 14 anni.

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Napoli, camorra:14 anni per il killer incastrato da moglie vittima clan

Fu la moglie di Massimiliano Di Franco, ucciso a Napoli in un agguato scattato il 26 febbraio 2014, ad incastrare il killer di suo marito, abbattendo un muro di omertà fino al quel momento rimasto invalicabile: fu lei, infatti, a rivolgere un'ultima domanda al consorte prima che morisse, a chiedergli chi gli avesse sparato. E lei, con enorme coraggio, dopo avere appreso la verità dal suo uomo, lo rivelò agli inquirenti consentendo l'arresto e la condanna di Alessandro Riccio che, malgrado i suoi 25 anni, era già ritenuto un elemento di spicco del gruppo camorristico Sibillo del rione Forcella di Napoli.

Oggi, Riccio, è stato condannato a 14 anni e 4 mesi per traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. Una condanna che si aggiunge all'ergastolo preso per quell'omicidio deciso perché Di Franco, allontanatosi dalla criminalità organizzata, si era rifiutato di gestire una piazza di spaccio per conto dei Sibillo. La condanna - insieme con quelle di altri 14 imputati, tra i quali figura anche il boss Pasquale Sibillo - è giunta al termine di un processo con rito abbreviato celebrato nell'aula bunker del carcere di Poggioreale dove si sono vissuti anche momenti di tensione, con un gruppo di imputati che ha rivolto pesanti ingiurie e minacce al pm Henry John Woodcock. Per l'omicidio di Di Franco Riccio è stato condannato all'ergastolo la fine dello scorso mese di giugno.

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sabato 5 novembre 2016

Sant'Antimo. Uomo vicino ai Puca arrestato per aver chiesto soldi a un imprenditore. ECCO IL NOME

SANT'ANTIMO. A Sant’Antimo i Carabinieri della locale Tenenza hanno sottoposto a fermo Antimo Iavazzo, detto “occhi a palla”, 28enne, sorvegliato speciale con l’obbligo di soggiorno a Sant’Antimo, ritenuto contiguo al clan “Puca” operante nella cittadina, per tentata estorsione aggravata dal metodo e da finalità mafiose. Iavazzo ha tentato di estorcere denaro e altre utilità ad un imprenditore. Occorre scendere nei dettagli… 

Tra settembre e ottobre ha avanzato le richieste in più occasioni e con modalità sempre diverse. In un’occasione ha chiesto alla vittima “una mano” a livello economico perché era appena uscito dal carcere. Una seconda volta gli aveva intimato che, a prescindere dalla sua disponibilità economica, avrebbe dovuto “restare a disposizione” per qualsiasi esigenza di liquidi. Ancora: gli aveva intimato di passare in un negozio a pagare la cucina che aveva appena acquistato. Poi, anche di assumerlo nella sua società con un incarico di rilievo. Nell’episodio che ha esasperato l’imprenditore, infine, lo ha addirittura seguito nel bar che frequenta, entrando in bagno dietro di lui e chiudendolo nei servizi per terrorizzarlo. Al termine dell’attività d’indagine il 28enne è stato fermato. Il suo fermo è stato convalidato dal GIP di napoli, che ne ha disposto la permanenza nel carcere di Poggioreale

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venerdì 21 ottobre 2016

Sant’Antimo nella morsa della violenza. Le 36 ore che hanno sconvolto il paese

SANT’ANTIMO – Un omicidio e un duplice tentato omicidio. È questo il bilancio della 36 ore di violenza che ha avuto come palcoscenico Sant’Antimo, paese di 30mila abitanti a nord di Napoli che in passato era balzato agli onori della cronaca solo per piccole vicende criminali.

UXORICIDIO. Alle 6.30 di mercoledì, in un auto in sosta a via Plutone, Carmine D’Aponte ha estratto la pistola e ha sparato a sua moglie Stefania Formicola. Una storia fatta di violenze familiari che andavano avanti da anni. Lui 33 anni e lei 28. Si erano conosciuti su internet. Poi il fidanzamento, il matrimonio e la nascita di un figlio. Da quel momento le cose sono andate sempre peggio. Carmine aveva difficoltà a trovare lavoro e sfogava le pressioni sulla moglie. La picchiava, la minacciava e una volta le ha puntato la pistola in faccia. Stefania, come tante altre donne prima di lei, non ha trovato il coraggio di denunciare. “Aveva paura”, dicono i familiari. Paura che la 28enne aveva manifestato in una lettera inviata ai genitori nel 2013 in cui scriveva “Se mi dovesse accadere qualcosa, pensate a mio figlio”. Una storia di ordinaria violenza sulle donne condita da un particolare inquietante che riguarda l’assassino. Carmine non è il primo uxoricida della famiglia D’Aponte. Suo nonno infatti aveva anche lui ucciso la moglie, ovvero la nonna del 33enne.

DRAMMA FAMILIARE. Trentasei ore dopo, in una palazzina di via D’Annunzio, a circa 2 chilometri dal luogo in cui è stata uccisa Stefania, si è consumato il dramma della famiglia Ponticiello. Il padre, malato di parkinson e da tempo costretto sulla sedia a rotelle, imbraccia il suo vecchio fucile da caccia e apre il fuoco contro suo figlio. Sulla traiettoria dei proiettili ci finisce anche la madre, la 50enne Loredana Angelini, che si è immolata per salvare il ragazzo. A spingere Leopoldo Ponticiello, 61 anni, ad aprire il fuoco sarebbe stata l’ennesima lite scoppiata con il figlio Andrea, 28 anni, l’unico dei cinque figli a vivere ancora in casa. Il padre voleva che il ragazzo mettesse “la testa a posto”, magari trovandosi un lavoro e smettendo di frequentare “brutti giri”. Andrea infatti aveva diversi precedenti per droga e in casa sono state ritrovate dai carabinieri alcune piante di marijuana e tutto l’occorrente per la coltivazione della cannabis. Madre e figlio sono stati trasportati d’urgenza all’ospedale di Giugliano ma sono fuori pericolo. Il padre è stato interrogato dalle forze dell’ordine e confinati ai domiciliari a casa di un parente. Le sue condizioni di salute sono incompatibili con il regime carcerario.

Ieri intanto si è tenuta una fiaccolata in onore di Stefania Formicola, decine di donne si sono unite al dolore della famiglia per chiedere una pena esemplare nei confronti dell’assassino. Oggi si terranno i funerali presso la chiesa Santa Maria della Provvidenza, nel rione don Guanella a Napoli.

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Napoli. Clan imponeva il pizzo nel mercato 8 arresti: c'è il figlio di «'o pascià»

I carabinieri della compagnia di Poggioreale, a Napoli, hanno dato esecuzione a un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Napoli a carico di 8 persone accusate a vario titolo di associazione di tipo mafioso e di estorsione, rapina, ricettazione e commercio di prodotti con marchi contraffatti aggravati da finalità mafiose. Nel corso di indagini coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia partenopea i militari dell'Arma hanno accertato che il clan camorristico dei Mazzarella imponeva il pagamento del 'pizzo' in varie forme ai commercianti di un mercato rionale nel centro storico di Napoli.

Tra gli arrestati figura anche Francesco Rinaldi, 26 anni, figlio di Francesco, detto «'o pascià», reggente della famiglia camorristica dei Mazzarella per conto del capoclan Vincenzo. Secondo quanto emerso dalle indagini, che si sono avvalse anche di intercettazioni ambientali, telefoniche e delle dichiarazioni di collaboratori di giustizia, vittime delle estorsioni erano i commercianti ambulanti di un noto mercato rionale della città, quello della Maddalena, a cui il clan imponeva, a prezzi maggiorati, la fornitura di buste di cellophane usate per confezionare capi di abbigliamento contraffatti. Il genero dello storico capoclan Vincenzo Mazzarella, ricopriva il ruolo di capozona; il figlio del «pascià», invece, faceva l'emissario del padre. Gli altri sette arrestati, tra cui due donne, infine, imponevano ai venditori ambulanti italiani e stranieri, una tangente di 10 euro a settimana solo per consentire loro di vendere la merce nel mercato. il clan imponeva anche l'acquisto a prezzi fortemente maggiorati, di prodotti con il marchio falso di note griffe di moda nazionali e internazionali, in particolare scarpe, occhiali e abbigliamento. Le altre persone arrestate sono: Giovanni Nunziata, di 22 anni; Alessandro Cecere, 23 anni; Salvatore Ramaglia, 38 anni; Luisa Ottaviano, 48 anni e Stefania Lauro, di 44 anni, tutti in carcere. Per Ciro Caforio, 47 anni (già detenuto) e Fortunato Gargiulo, 31 anni, sono stati disposti i domiciliari. 

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lunedì 17 ottobre 2016

Comuni Ricicloni 2016: premiati Cellole, Falciano del Massico, S.Antimo e San Marco Evangelista

La 12esima edizione di Comuni Ricicloni Campania si chiude con un lusinghiero risultato per il Consorzio Cite scarl. Quattro dei comuni in cui il consorzio opera sono stati premiati: Cellole, Falciano del Massico, Sant’Antimo e San Marco Evangelista.

“Sono molto soddisfatta dei risultati che stiamo conseguendo. – afferma l’amministratrice del consorzio Rossella Gallo – La nostra mission è quella di impegnarci sul territorio per diffondere e promuovere una corretta coscienza ambientale e da come stanno andando le cose devo dire che ci stiamo riuscendo. Certo c’è ancora tanto da lavorare e da migliorare. Facciamo continui sforzi e con il sostegno delle amministrazioni locali e l’impegno dei cittadini, la percentuale di raccolta differenziata continuerà a crescere”.

E quando parliamo di crescita possiamo sicuramente riferirci a Sant’Antimo, nel 2016 ha raggiunto il 70%, che viene da un triennio in cui la percentuale di rifiuti differenziati è cresciuta costantemente. Ieri, a rappresentare il comune, premiato nella speciale categoria, ‘comuni da tenere d’occhio’, c’erano l’assessore Tommaso Beneduce ed il dirigente del settore Lucia Nardi chiamati sul palco dal Presidente di Legambiente Campania Michele Buonomo.

Ai comuni di Falciano del Massico e San Marco Evangelista l’attestato per aver superato il 65% di raccolta differenziata, mentre a Cellole il riconoscimento è andato per aver partecipato, la scorsa estate, a Riclaestate.

Soddisfazione è stata espressa dalle amministrazioni locali premiate: Giosuè Santoro sindaco di Falciano del Massico; Angelo Barretta, sindaco di Cercola, Domenico Vagliviello, assessore all’ambiente di San Marco Evangelista.

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Una vita sotto scorta. Saviano 10 anni dopo: «Non avete vinto. Sono ancora vivo!»


NAPOLI. Dieci anni dopo la pubblicazione di Gomorra e le invettive contro i casalesi, quella di Saviano continua a essere una vita blindata. La scorta gli è stata assegnata proprio nell'ottobre del 2006 e da allora non è cambiato molto. Questa sera, alle 23.05, Rai3 ripropone il documentario di Pif del 2013, rimontato per l'occasione con l'aggiunta di materiali inediti. Pif segue Saviano da vicino, lo racconta come mai è stato fatto prima. Lo accompagna nel suo ritorno a Napoli dopo un lungo periodo di assenza fino a diventare gli occhi di Roberto e ritornare in quei posti di Napoli che lo scrittore più ama, ma dove, per ragioni di sicurezza, non può più andare. Con ironia, leggerezza e sensibilità restituisce un ritratto intimo ed emozionante di un uomo che da quando ha 26 anni è stato costretto a rinunciare a una vita normale, alle sue piccole gioie quotidiane, anche a una passeggiata in centro per mangiare un gelato. Con questa puntata inizia la collaborazione tra Pif e Rai3 che proseguirà nel 2017 con il suo nuovo programma.

Saviano: “Grido ai boss: io sono vivo” "Dieci anni. Eppure, è come se fosse accaduto stamane. Ci sono cose a cui non ci si abitua. Mai. Una di queste è la scorta". Era il 13 ottobre del 2006, quando la vita di Roberto Saviano cambiò. Da quel giorno, la sua è un’esistenza sotto protezione, ripercorsa, in una difficilissima operazione di sintesi, sulle pagine di Repubblica. “Sono ancora vivo” è il “grido” dell’autore di Gomorra ai boss. Un grido con il quale Saviano dice ai boss che non hanno vinto. In un racconto denso, Saviano prova a spiegare cosa vuol dire vivere da “uomo non libero”. Parte dalla telefonata di un maggiore dei carabinieri che gli comunica che da quel momento lui è sotto scorta. "Quando vennero a prendermi" scrive, "chiesi: ma per quanto? E un maresciallo mi rispose: credo pochi giorni. Sono passati dieci anni". Le ragioni, continua lo scrittore, "mi giunsero come una grandinata di situazioni che non conoscevo. Una detenuta che aveva svelato dei piani contro di me, poi le dichiarazioni di Carmine Schiavone, poi informative su informative. Avrei voluto tornare indietro e non scrivere più Gomorra, non scrivere più alcun articolo, rifugiarmi". Nel racconto di Saviano c’è anche la ricostruzione di un processo esemplare per capire i meccanismi della camorra, ma anche di certa parte della nostra società. "Non siete riusciti a ottenere quello che volevate. Non mi sono fermato, non mi sono piegato" è uno dei passaggi conclusivi.

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martedì 27 settembre 2016

Camorra. 'Paranza dei Bimbi': «Lo sanno pure le guardie, fìnché ci uccidiamo tra immondizia e immondizia se ne fottono…»

NAPOLI. “Lo sanno pure le guardie…fìnché ci uccidiamo tra immondizia e immondizia… se ne fottono…ma quando poi si comincia a toccare la gente innocente… ti saltano addosso…”. Con queste parole due esponenti della “Paranza dei bimbi” di Forcella commentavano l’omicidio di Massimiliano Di Franco, colpito a morte il pomeriggio del 26 febbraio 2014 in piazza San Gaetano e poi deceduto il giorno dopo in ospedale. 

Per quell’omicidio, xome riporta il sito cronachedellacampania.com, è stato condannato all’ergastolo Alessandro Riccio uno dei killer della “Paranza”. La frase è contenuta nelle motivazioni della sentenza in cui i giudici elogiano anche il coraggio della moglie della vittima che nonostante le minacce e le pressioni subite, in aula non ha esitato a raccontare quanto accaduto e ad indicare il nome e il volto dell’assassino del marito. Dalle motivazioni emerge comunque, nonostante la protervia del clan, la preoccupazione degli affiliati che al telefono dicono tra di loro: “Mannaggia ad Alessandro… magari se uno pensa che…”. Alessandro aveva causato un problema: aveva ucciso uno di loro. Massimiliano Di Franco aveva detto basta. Era andato a lavorare al Nord come muratore. Era tornato perché la moglie era in attesa del loro terzo figlio. Lo avevano avvicinato di nuovo: ma lui aveva detto di nuovo no. E questo affronto fu pagato con la morte.

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Vendevano droga nelle palazzine, condannati in quattro : tra di loro anche una donna


melito droga palazzineMELITO – Spaccio, in quattro condannati. E’ quanto ha disposto l’altra mattina il gip del tribunale di Napoli Nord Fabrizio Finamore nei confronti di tre uomini ed una donna: inflitti oltre 15 anni di reclusione. Gennaro Finizio, 43enne di Melito, Ciro Caputo, 34enne di Melilo e Salvatore Martinelli, 50enne di Castelvolturno, rimediano 3 anni e 8 mesi a testa oltre ad 1 Inula e 600 euro di multa ciascuno. Italia Lovisi, 30enne di Melito, ‘prende” 3 anni, 6 mesi e 20 giorni oltre a 15mila euro di multa. Sono stati giudicati con il rito abbreviato.


Il quartetto venne arrestato lo scorso marzo al termine di un’operazione messa a segno dai carabinieri della Compagnia di Giugliano, diretti dal capitano Antonio De Lise, nelle palazzine popolari di Melito. I militari, infatti, effettuarono un servizio ad “Alto Impatto” insieme ai colleghi del Reggimento Campania finalizzato al contrasto dei fenomeni di illegalità diffusa ed in quella zona, nello specifico, di lotta allo spaccio.

I quattro furono sorpresi dagli uomini della Benemerita in un servizio di osservazione su via Lussemburgo, dove avevano dato vita ad un’attività di spaccio ripartendosi a rotazione i compiti di spacciatore e di vedetta. A seguito di perquisizione personale e successiva perquisizione domiciliare vennero rinvenute 22 stecche di hashish dal peso di 65 grammi e mezzo, 2 dosi di cocaina (in totale un grammo), 4 dosi di crack (5 grammi), oltre alla somma di 890 euro in denaro contante.

Un blitz nelle palazzine popolari a ridosso del quartiere napoletano di Scampia, dunque, portò al rinvenimento di dosi di droga: una zona piuttosto “calda” dove non sono mancati gli screzi tra diverse fazioni dei clan della zona per accaparrarsi la gestione del business dello spaccio. Fiumi di droga che scorrono ogni giorno e che arricchiscono i cartelli criminali attivi nell’area a nord. Nonostante la frequenza dei controlli di polizia e carabinieri, la vendita al dettaglio prosegue senza sosta, con i pusher che trovano sempre nuove tecniche di smercio per eludere gli accertamenti delle forze dell’ordine. iL caso dei tré uomini e della ragazza dimostra come ci fosse un’organizzazione capillare interna per scambiarsi i ruoli di’sentinella’ e ‘venditore dal dettaglio” nel corso della giornata di lavoro

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Clan Verde, storico boss ucciso da un male incurabile

Sant'Antimo. Il boss è morto nella sua abitazione. Stroncato da un male incurabile. Un evento raro per un pezzo da novanta quale era Antonio Verde, 56 anni, di Sant'Antimo, che con il fratello Francesco, detto «o negus», e Mario, soprannominato «capa liscia» componeva la trimurti del vertice del clan Verde, una delle cosche che ha attraversato mezzo secolo di sangue e morti ammazzati, dallo scontro tra cutoliani e Nuova Famiglia all'impero dell'era dei casalesi e fino alla faida di Scampia e alla camorra 3.0, quella dei baby boss.
Antonio Verde, proprio a causa delle sue precarie condizioni di salute, era stato rimesso in libertà lo scorso mese di aprile, con l'obbligo di risiedere presso il suo domicilio di via Martiri d'Ungheria a Sant'Antimo dove si è spento ieri mattina. Si chiude così un altro capitolo della saga criminale del clan Verde, che per oltre quarant'anni ha controllato in modo asfissiante tutte le attività produttive di Sant'Antimo, Casandrino e Grumo Nevano, nonostante le faide con il clan Puca, retto da Pasquale Puca detto «'o minorenne» e le sanguinose schermaglie con i Ranucci e i Petito, clan quest'ultimi, praticamente azzerati da lupare e ed ergastoli.

Dopo lo spettacolare omicidio del fratello Francesco, detto «o negus» (come l'imperatore di Etiopia) per la sua ieraticità e per il rimanere al comando da boss per decenni - ucciso il 29 dicembre del 2007, in pieno centro a Casandrino, mentre tornava nel suo bunker dopo aver firmato in commissariato - il comando era passato ad Antonio e al terzo fratello, Mario, coadiuvati da una pletora di generi e nipoti che posero un argine allo strapotere criminale di Pasquale Puca, detto «'o minorenne», un boss astuto e con il fiuto degli affari, a ben vedere una maxiconfisca di beni per circa 150 milioni di euro. Con la scomparsa di Antonio Verde, e la concomitante detenzione del fratello e di alcuni nipoti, il clan Verde, dopo oltre 40 anni di permanenza nel ristretto gotha criminale, rischia davvero una totale estinzione.

m.d.c.

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giovedì 15 settembre 2016

Marano, il superboss latitante tradito dalle nozze del figlio: deve scontare 30 anni di carcere

MARANO. I carabinieri del Nucleo Investigativo di Napoli erano sulle sue tracce da molto tempo e Giuseppe Ruggiero, 53 anni, ritenuto esponente di spicco del clan Polverino, ricercato dal 2011, era sempre stato molto accorto nella gestione della sua latitanza. Ma un “lieto evento” in famiglia gli ha fatto compiere alcuni passi falsi che, alla fine, gli sono costati cari. E’ stato il matrimonio del figlio, celebrato qualche giorno fa, nella sua Marano, a dare gli indizi giusti ai militari che lo hanno preso, stamattina, con Carlo Nappi, considerato un altro elemento di spicco dello stesso clan, anch’egli latitante dal 2011.

I militari li hanno scovati in una villetta di Pomezia. Entrambi avevano documenti falsi, che hanno mostrato ai carabinieri i quali, però, conoscevano benissimo la loro identità. Ruggiero, inoltre, risulta essere tra i 100 latitanti più pericolosi d’Italia.

I militari del Nucleo Investigativo di Napoli, con la collaborazione dei colleghi di Roma, avevano stretto il cerchio intorno a Ruggiero da circa un mese, soprattutto tenendo sotto controllo i parenti e tutti le persone che potevano favorire la sua latitanza - si legge su Cronache della Campania - Rapporti che si sono infittiti con l’approssimarsi delle nozze del figlio e che hanno consentito agli investigatori di scoprire quale fosse il suo nascondiglio.

I due nel pomeriggio sono stati portati nel carcere romano di Rebibbia. Entrambi erano ricercati dal 2011 e sfuggivano all’esecuzione di due ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip di Napoli su richiesta della direzione distrettuale antimafia partenopea per associazione di tipo mafioso, estorsione, associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti e per traffico e spaccio di droga. Per questi reati, nel maggio del 2015 Carlo Nappi è stato condannato a 30 anni di carcere, mentre Ruggiero ne deve scontare 26 e otto mesi.

Il clan Polverino è un gruppo di camorra operante nella zona a nord di Napoli principalmente nel Comune di Marano di Napoli. Ha il monopolio, con il clan Nuvoletta, della gestione dei traffici di droga leggera in buona parte della provincia partenopea. Il clan oltre a gestire il traffico dall’estero, e lo spaccio degli stupefacenti, reimpiega il denaro in attività commerciali ed edilizie.

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giovedì 8 settembre 2016

Camorra. Dietro lo sterminio dei Vastarella, la vendetta degli Esposito-Spina

SANITA'. Tra le incognite, nei vari scenari possibili che gli investigatori ipotizzano nel cercare la chiave dell’omicidio Vastarello, c’è il posizionamento sul territorio del gruppo Spina, i “Barbudos”. Un gruppo assurto agli onori della cronaca nel 2015, quando i carabinieri intercettarono le conversazioni degli affiliati mentre organizzavano la vendetta per l’agguato mortale a Ciro Esposito (ucciso il 7 gennaio 2015).Dalle intercettazioni emergeva che i giovani leoni di camorra attribuivano l’assassinio dell’amico, nonché parente, a Emanuele Sibillo e perciò lo cercavano per ammazzarlo. Non furono poi loro a farlo, ma quelle frasi captate dalla microspia sono importanti perché testimoniano lo stretto legame tra i clan anche in funzione anti Vastarella. Gli investigatori non dimenticano infatti, che il ras Pietro Esposito detto “Pierino”(padre di Ciro) è morto per essersi opposto al tentativo dei Lo Russo, spalleggiati dai Vastarella secondo le forze dell’ordine, di introdursi nuovamente alla grande nel rione Sanità per la vendita di droga. Dunque, le indagini della polizia per risalire agli autori dell’omicidio di Vittorio Vastarello partono da basi concrete e non escludono gruppi e personaggi che,anche se cacciati dal clan Vastarella l’anno scorso dalla Sanità, hanno ancora un legame con il quartiere. 

E oltre agli spina, che non si vedono in giro, l’attenzione è puntata anche sui Mallo. Il ras Walter, ora in carcere,molto legato a Pietro Esposito, fu costretto a trasferirsi a Miano, dove si è scontrato con i Lo Russo. Mail gruppo è ancora attivo secondo gli inquirenti nonostante lui e i fedeli luogotenenti siano finiti dietro le sbarre. In tutto ciò nessuno dimentica che la strage delle Fontanelle (due morti e tre feriti nelle file dei Vastarella)e la morte violenta di Vittorio Vastarello ha comunque indebolito il clan numericamente nonostante sia in libertà il ras di maggior spessore: Patrizio Vastarella. Gli investigatori non escludono che fosse lui il principale obiettivo dei sicari del gruppo Genidoni-Esposito entrati in azione il 22 aprile scorso nel circoletto in cui i nemici di camorra giocavano a carte. L’irruzione e la sparatoria erano state ben studiate a tavolino ed è certo che qualcuno fece la spiata dando la conferma della presenza degli obiettivi all’interno. Ma Patrizio e il nipote Vittorio non c’erano quella sera; per quest’ultimo però il 31 agosto non c’è statoscampo. 

IL ROMA

martedì 6 settembre 2016

Camorra. Parlano i pentiti: «Al Rione Traiano comandano loro»

NAPOLI. “Nel Rione Traiano comandano loro”: questa la dichiarazione unanime rilasciata davanti ai giudici da Emilio Quindici, Maurizio Ferraiuolo, Davide Leone, Alfredo Sartore e Antonio Ricciardi, pentiti che a vario titolo hanno indicato nel clan Puccinelli la cupola che controlla gli affari illeciti nella zona. 

Dalle piazze di spaccio al racket, dalle sale da gioco al contrabbando, nel rione non si muoverebbe foglia - come riporta il Roma - che il clan non voglia. Un esercito di affiliati e fiancheggiatori al soldo dei Puccinelli che starebbero potenziando i gruppi di fuoco con elementi poco più che adolescenti ma di particolarmente inclini a “premere il grilletto”. Proprio sulle figure degli insospettabili pusher del clan, si parlerebbe di massaie, anziani e persino disabili; gli investigatori starebbero indagando a fondo onde risalire alle modalità comportamentali di un sistema che muove cifre da capogiro. Sui giovanissimi del posto questi signori godrebbero di forte ascendete: l’idea di essere rispettati, di possedere auto e moto sportive, di potersi permettere abiti griffati spingerebbe giovani esistenze nelle ciniche grinfia della camorra. Tutto falso, effimero e forviante: il cammino intrapreso da chi vive di camorra, oltre a disonorare la persona, conduce inesorabilmente al carcere o alla tomba.

Ci chiediamo allora perché lo Stato in certe realtà non promuova campagne di sensibilizzazione nelle scuole, nelle parrocchie e in tutti i centri di aggregazione giovanile al fine di mostrare l’epilogo drammatico di scelte infelici. I potenti, lo ribadiremo sempre, massoni, cattivi politici, imprenditori collusi si ingrassano come scrofe sull’ignoranza e sullo sbandamento sociale delle fasce più esposte della comunità. Nel torbido si pesca meglio: allora perché incivilire servi sciocchi, portatori d’acqua in periodo elettorale, persone che vendono la propria esistenza per poche centinai di euro rinnegando anche i più elementari principi morali. 

Questo il quadro avvilente in cui le nuove leve partenopee crescono: senza adeguata scolarizzazione, occupazione e sana aggregazione il match con la camorra è perso in partenza. Non ci stancheremo mai di ripetere questo concetto nel rispetto dei tanti onesti cittadini che vorrebbero vivere Napoli in sicurezza e dare un futuro accettabile ai propri figli. In sintesi: a Napoli vige ancora la miserabile regola imposta tacitamente da alcuni amministratori e politici che recita: “fate quello che dico io… ma non quello che faccio”

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Napoli, il racconto di Valentino «Io, 19enne sopravvissuto alle stese»

«Quella mattina dovevo andare al mare, aspettavo gli amici per trascorrere la prima giornata di svago, magari in vista di una breve vacanza che avrei dovuto trascorrere in Spagna. Un sogno atteso da mesi, dopo un anno di lavoro, avevo messo da parte qualche risparmio. Un sogno che si è infranto in una manciata di secondi». È il dieci agosto scorso, sono da poco trascorse le tredici in via Marco Aurelio, quando al rione Traiano scoppia l'inferno. È così che l'estate di un ragazzo di 19 anni, si chiama Valentino Esposito, cambia all'improvviso: si ritrova al centro di quelle che oggi vengono chiamate «stese» - agguati plateali per rimarcare il proprio dominio del territorio -, viene ferito gravemente all'altezza dello stomaco. Non morirà. Un miracolo, il suo. Meno di un mese dopo, ripercorre la sua estate in ospedale con il Mattino: «Non riuscivo a capire cosa fosse accaduto - dice oggi il 19enne ripensando a quella mattinata del giorno di San Lorenzo - so solo che mi portarono qui in ospedale, dove sono stato operato da medici in gamba, dove sono stato salvato e da dove spero di uscire presto in buone condizioni di salute».

Valentino Esposito è ancora in ospedale, al San Paolo, accudito dai genitori, amici e parenti. Un miracolato - insistono i medici - mentre si attende l'esito dell'ultima radiografia, in vista del possibile via libera per il ritorno a casa: diaframma, fegato e polmone colpiti dalle schegge del colpo esploso quella mattina, sarebbero bastati pochi millimetri ad uccidere un ragazzo estraneo al crimine, raggiunto per errore nel corso di un agguato camorristico.
Da allora indagini della Mobile del primo dirigente Fausto Lamparelli, che hanno escluso ogni coinvolgimento del ragazzo in dinamiche criminali, ma anche della donna che stava affacciata al balcone, lì a pochi passi da Valentino Esposito. Ma chi è il 19enne ferito? «Lavoro, vivo qui al rione Traiano, non chiedo di lasciare Napoli, ma di vivere in una società migliore, magari con una massiccia presenza di forze dell'ordine. Mio padre è un lavoratore, è impiegato in un'agenzia nautica, ma è stato anche nel corpo dei vigili del fuoco; mio nonno è cavaliere della Repubblica, dopo una vita con i vigili del fuoco, insomma in famiglia siamo tutti per la legalità. È trascorso quasi un mese, ma davvero non riesco a capire chi e perché mi ha provocato queste ferite. Mi stavano ammazzando senza un motivo».

Un inferno, quel dieci agosto scorso, in periferia: alle sei del mattino vennero esplosi otto colpi in zona rione Traiano, tanto che qualcuno pensò ad una festa all'alba per San Lorenzo, in attesa della notte per le stelle cadenti; poi alle tredici la probabile risposta, ancora un agguato nel corso del quale vengono feriti Valentino Esposito e una donna colpita mentre stendeva i panni da asciugare al balcone del primo piano; poi, in serata nuovi spari in zona Loggetta. Ma è il padre di Valentino, Ugo Esposito a prendere la parola: «Abbiamo ricevuto vicinanza e solidarietà da parte di gente comune, di persone che ci conoscono, dagli stessi agenti della polizia che sono venuti a fare un sopralluogo a casa nostra. Credevano di trovare qualcosa di compromettente per motivare un possibile coinvolgimento del ragazzo con l'ennesimo episodio di far west cittadino, ma si sono ricreduti subito. Hanno fatto il loro lavoro e la loro presenza ci ha confortato».

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giovedì 1 settembre 2016

Camorra a Caivano. La guerra tra i clan La Montagna e Castaldo si sposta in tribunale

CAIVANO. Duplice delitto di camorra a Caivano, sei imputati, di cui cinque condannati all'ergastolo lo scorso anno con il rito abbreviato, hanno fatto ricorso in Appello. Fissata l'udienza in Corte d'Assise di Appello di Napoli per la fine del prossimo mese di novembre. Il massacro avvenne il 3 settembre del 2004 nel Parco Verde di Caivano, fiorente piazza di spaccio; vittime furono Giuseppe Angelino e Sandro Chiocciariello, elementi di spicco del clan Castaldo, acerrimo nemico dei La Montagna. Il primo luglio dello scorso anno la sentenza di primo grado. A presentare ricorso in Appello sono stati Raffaele Bidognetti, Mario Cavaliere e Alessandro Cirillo, di Casal di Principe, Domenico La Montagna, Andrea Petillo e Roberto Fermo, di Caivano. In primo grado Bidognetti, Cavaliere, Cirillo, La Montagna e Petillo sono stati condannati all'ergastolo nonostante avessero scelto di essere condannati con rito abbreviato. Dodici anni la pena comminata a Fermo, collaboratore di giustizia.
Il processo in Appello scaturisce dall'inchiesta che due anni fa portò agli arresti eseguiti dai carabinieri di Castello di Cisterna. Come riferito dai pentiti, l'azione fu decisa dal boss La Montagna per mettere fine allo scontro con i rivali del clan Castaldo compiendo ai loro danni un'azione eclatante. Il disegno di La Montagna infatti era di colpire tutti colori i quali al momento dell'agguato si fossero trovati in compagnia di Angelino, vero obiettivo dei killer. Il coinvolgimento di Bidognetti di Francesco Di Maio e di Cavaliere, secondo la Procura, risaliva ad alcune settimane prima. La Montagna infatti aveva saputo che Angelino stava trascorrendo qualche giorno di vacanza a Pescopagano, zona sotto il controllo dei Bidognetti, per questo aveva chiesto il loro aiuto per portare a termine l'agguato. Non a caso furono i Casalesi a fornire le armi. Bidognetti e i suoi parteciparono, secondo la Procura, anche materialmente all'agguato insieme a Petrillo mentre La Montagna e Fermo erano incaricati di guidare le auto che avrebbero dovuto portare i sicari fuori dal parco Verde. Qualcosa però non andò secondo i piani. In base alla ricostruzione degli inquirenti, Chiocciariello morì sul colpo, Angelino, invece, dopo essere stato ferito ad un braccio da Di Maio, riuscì a darsi alla fuga nelle campagne. Raggiunta la vittima, Di Maio lo finì a colpi di mitra.

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Camorra. L'agguato a Vittorio Vastarella studiato dai nemici in vacanza: la pista è quella degli Esposito-Genidoni

NAPOLI. La tregua estiva negli ambienti di malavita è finita anche alla Sanità, dove ieri mattina due sicari hanno sparato contro Vittorio Vastarella. Il fratello del ras è in fin di vita C’è mancato poco che gli assassini ci riuscissero perché l’unico colpo a segno ha reciso l’arteria femorale e i medici del Pellegrini hanno dichiarato il paziente clinicamente morto. Le piste battute sono due: la ripresa della faida con i Genidoni-Esposito-Spina o un affare di droga per il quale c’era un conto in sospeso con qualche ras, dello stesso rione o addirittura di un’altra zona. L’allarme in via San Vincenzo è scattato alle 12 e 30. Vittorio Vastarella, che abitava nei dintorni, stava camminando quando sono entrati in azione i sicari, due in sella a una motocicletta. 

È partito il primo proiettile e il 43enne ha capito subito che aveva una sola possibilità di salvezza: infilarsi nel cortile del palazzo al civico 37, a due passi da lui. Così ha fatto, ma è stato inseguito e contro di lui sono stati esplosi altri cinque colpi di pistola calibro 9x21. Uno solo l’ha centrato alla gamba destra, che rischia di essergli fatale perché ha reciso l’arteria femorale. Proprio il troppo sangue perduto è alla base del coma in cui è precipitato il fratello di Giuseppe (ucciso il 22 aprile scorso alle Fontanelle) nonché figlio di Raffaele detto “Auciello” (detenuto) e nipote del ras Patrizio. A trasportare il ferito all’ospedale dei Pellegrini è stato un automobilista di passaggio, che l’ha caricato in macchina dopo i primi soccorsi di alcuni passanti. Le indagini sono condotte dai poliziotti della squadra mobile della questura e dai colleghi del commissariato San Carlo Arena. Investigatori esperti, che ben conoscono il territorio e hanno imboccato con decisione due piste, escludendo subito l’ipotesi di un’epurazione interna al clan. 

IL PROFILO CRIMINALE 

Ha terminato tre mesi fa gli arresti domiciliari per l’unico reato commesso in 43 anni, la droga. Ma Vittorio Vastarella è un simbolo in quanto appartiene alla famiglia ritenuta al momento la più potente negli ambienti di mala della Sanità. Un clan entrato in rotta di collisione con i Genidoni-Esposito- Spina, appoggiati dai Mallo di Miano, più per vicende di camorra di quartiere e mancato “rispetto” che per i traffici di droga, il business principale in zona. Ecco perché la pista più battuta, da un punto di vista logico non potrebbe essere altrimenti, conduce alla ripresa della guerra. Vincenzo Vastarello è il fratello di Giuseppe, ucciso il 22 aprile scorso nel circoletto alle Fontanelle in cui perse la vita anche il cognato Salvatore Vigna e furono feriti in maniera lieve altri tre appartenenti al gruppo. Quella sera però, sono sicuri gli investigatori, il 43enne ferito gravemente non c’era nei locali assaliti dai sicari del clan nemico. Né lui fino a ieri mattina era salito alla ribalta della cronaca, se non in occasione dell’arresto per droga. 
Molto più conosciuti dalle forze dell’ordine sono il padre, Raffaele detto “Auciello”, e lo zio Patrizio, libero da tempo e considerato il personaggio di maggiore spessore della famiglia. In particolare, il primo fu arrestato due anni e mezzo fa dai poliziotti del commissariato San Carlo nel corso di quelle che, alla luce degli eventi successivi, può essere definita la prima “stesa” a Napoli. Infatti gli investigatori si appostarono, in borghese naturalmente e con auto-civetta, nella zona delle Fontanelle, dove i Vastarella avevano stabilito il loro quartier generale. Così un gruppo di motociclisti in assetto da guerra fu fermato e il controllo permise di trovare e sequestrare una pistola addosso al ras 60enne. Tutti furono arrestati, ma solo lui restò dietro le sbarre. Il clan Vastarella è stato protagonista di varie guerre di camorra. Negli anni ottanta e novanta con i Misso, che a un certo punto ebbero la meglio e costrinsero gli attuali ras ad andare via dalla Sanità insieme con i Tolomelli. 

fonte: IL ROMA

Ai Vastarella la Sanità stava stretta. Un clan del centro storico dietro l'agguato al fratello del boss

di Sabrina Della Corte

CENTRO STORICO. Hanno ripreso il controllo del quartiere dopo anni di ridimensionamenti ed esìli, hanno riaperto case chiuse da tempo e cacciato via i nemici. Non vi sono dubbi sull'individuazione dei vincitori dell'ultima sanguinosa guerra di camorra alla Sanità, i Vastarella hanno battuto ed abbattuto gli Esposito-Genidoni proprio nel momento in cui sembravano dovessero soccombere definitivamente. Era il 22 aprile quando un commando armato fece fuoco all'impazzata all'interno del circolo Maria Santissima dell'Arco ammazzando il boss Giuseppe Vastarella e suo cognato Salvatore Vigna e ferendo Antonio e Dario Vastarella e Alfredo Ciotola. Sembrava il colpo di grazia per il clan, 'catapultato' dieci anni prima a Melito, ma invece i Vastarella riuscirono a reagire annientando, secondo gli inquirenti, gli esecutori dell'agguato: gli Esposito-Genidoni. 

Lo fecero attraverso una vendetta trasversale che sconvolse la comunità di Marano, con gli omicidi di Giuseppe e Filippo Esposito, colpevoli di essere, rispettivamente, padre e fratello di Emanuele Esposito, ritenuto dalle forze dell'ordine l'esecutore materiale della strage delle Fontanelle. Strage studiata nei minimi particolari da Antonio Genidoni, figliastro di Pierino Esposito, in compagnia di sua madre Addolorata Spina e della sua compagna Vincenza Esposito. I tre furono successivamente arrestati, insieme con Emanuele Esposito, pochi giorni più tardi. La polizia arrivò prima dei killer dei Vastarella che volevano definitivamente chiudere la partita che invece nella giornata di oggi si è improvvidamente riaperta. Resta difficile pensare che dietro l'agguato di via San Vincenzo alla Sanità, che è costato la vita (il 42enne è clinicamente morto) a Vittorio Vastarella, fratello del defunto boss Giuseppe, possano esserci gli Esposito-Genidoni. Ma allora se non sono stati gli 'eredi' di Pierino Esposito, chi ha sfidato i Vastarella? Non è escluso che dietro l'agguato di questa mattina possa esserci un tentativo di allargarsi oltre la Sanità da parte dei Vastarella che ha scatenato la reazione di qualche clan che non ha alcuna voglia di concedere una parte del territorio controllato.

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Sant'Antimo. Rischio sismico, solo una scuola in città è a norma

SANT'ANTIMO. Gli edifici scolastici cittadini sono tutti collaudati e provvisti di certificazione antisismica? A porre l’interrogativo è il Pd locale, che alla luce di quanto è avvenuto nel Reatino, vuole accendere i riflettori sul rischio terremoto. A dare voce alla minoranza è Aurelio Russo, già primo cittadino di Sant’Antimo, e primo candidato sindaco alle comunali del 2017 per il Pd. Russo segnala che solo un edificio scolastico, il “Pietro Cammisa“, dispone delle necessarie autorizzazioni antisismiche. 

L’amministrazione decise, con le somme limitate, a disposizione, di verificare lo stato di salute dei due edifici più vecchi di costruzione: il plesso della scuola Giovanni XXIII e quello in via Enrico Fermi, mentre per la Pietro Cammisa «i lavori di consolida-mento erano già in fase di completamento». Nel 2014 il Comune ha chiesto alla Regione, a seguito dei sondaggi, i fondiper realizzare gli interventi di consolida-mento. “Purtroppo, non avendo previstoalcun costo a spese del bilancio comunale, la regione ha comunicato lo stanzia-mento di fondi (circa 400mila euro per ognuno degli interventi) solo a partire dal 2017” commenta Russo che chiede di sa-pere se anche «i plessi di più recente costruzione (quello di via Piave e quello del-la Nicola Romeo) possono, ai fini certificativi, ritenersi in regola con le nuove nor-me antisismiche». Per l’ex sindaco è chiaro che bisogna attivarsi subito perché sirischia di perdere «anche il treno dei finanziamenti preannunciati dal Governo,per mettere in sicurezza le scuole dei no-stri figli». Ed in tema di rischi, conclude l’esponente democrat sollecita l’approvazione in consiglio del piano di protezione civile, pronto dal dicembre 2015 «questa mancata approvazione impedisce l'acquisizione delle strutture e delle tecnologie necessarie in caso di calamità. A luglio,pur essendone stata programmata la discussione, è stato depennato, all'ultimo momento: una follia». 

di Antonella Del Prete, Il Roma

venerdì 26 agosto 2016

Camorra. Lo Russo scomparsi, ripercussioni anche alle 'Vele': Licciardi, Scissionisti e Mallo si contendono il territorio

NAPOLI. Gli sconvolgimenti negli equilibri malavitosi a Secondigliano, con il declino dei “Capitoni”, non potevano non avere ripercussioni anche a Scampia, dove da qualche tempo gli investigatori notano un rafforzamento del clan Abete-Abbinante-Notturno-Aprea. 

La “Vinella” è sempre forte, ma indubbiamente si fa sentire il colpo subito con l’arresto del ras Umberto Accurso e il gruppo con base in via Vanella Grassi e in via Dante non può più dettare legge. C’è un solo clan secondo gli inquirenti che poteva beneficiare della crisi dei Lo Russo, indeboliti dal pentimenti di Mario e del fratello Carlo, e dei Mallo, il cui giovane capo Walter è finito in manette. Ed è il clan dei Licciardi, solo apparentemente chiuso nel suo bunker, fondatore e componente di primo piano dell’Alleanza di Secondigliano insieme con i Contini del Vasto-Arenaccia e i Mallardo di Giugliano. Così è accaduto e ora gli uomini della Masseria Cardone appaiono ancora più forti e pericolosi agli occhi di inquirenti e investigatori. È vero che i Lo Russo non sono affatto finiti, come la maggior parte degli investigatori ritiene, ma indubbiamente a Miano lo spazio per il clan Licciardi poteva aumentare e sarebbe effettivamente aumentato. 

Fermo restando che lo stesso ragionamento fatto per i “Capitoni” vale per i Mallo, decapitati nei vertici ma non cancellati dalla lista dei clan attivi. Basti pensare che le indagini dei carabinieri e della polizia sul giovane ras Walter hanno evidenziato che poteva contare su una quindicina di affiliati: lui e i due luogo tenenti sono finiti in manette, il resto sono in libertà. A Secondigliano lo scenario comunque è ancora complesso. Non vanno dimenticati i “Girati” della “Vanella-Grassi” e i Bocchetti di San Pietro a Patierno, gruppi entrambi con interessi nella zona del Berlingieri e del Perrone. 



FONTE: ILROMA

lunedì 22 agosto 2016

Oltre 5mila affiliati e 115 clan. Ecco l’esercito della camorra tra Napoli e provincia


NAPOLI. Quello che emerge dalla relazione del ministero dell’Interno sulle attività e risultati della Dia in Campania è un quadro allarmante. Tra Napoli e provincia sono ben 115 i clan attivi di cui 50 si dividono il Capoluogo e 65 sono molto attivi nell’hinterland. 

Una situazione più che drammatica se si pensa alle migliaia di persone che gravitano intorno alle varie cosche. Sarebbe impossibile fare un calcolo preciso del numero di affiliati presenti tra Napoli e la provincia ma si tratta di un vero e proprio esercito. Calcolando, infatti, che ogni clan può contare in media su una cinquantina di persone che hanno un ruolo attivo all'interno della cosca ecco che, in tutto la provincia, sarebbero presenti almeno cinquemila persone che gravitano nelle orbite camorristiche.

Un vero e proprio esercito di boss, ras, affiliati,pusher, pali e killer. Dopo aver analizzato la situazione a Napoli, il ministero dell’Interno ha diviso la provincia in tre grandi aree: versante occidentale, versante occidentale e ver-sante meridionale. Ben 65 clan attivi sul territorio che spesso si alleano tra di loro per espandere il proprio potere ovvero sono in guerra per il controllo degli affari illeciti.

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domenica 24 luglio 2016

Nomi e ruoli degli affiliati, così il boss fa tremare tutti. «Era ricca ma piangeva sempre miseria»

NAPOLI. Il neo superpentito di camorra Carlo Lo Russo rivela nomi e ruoli dei componenti del clan, ecco le descrizioni fatte dinanzi ai magistrati dal collaboratore di giustizia.

Carmine Danese «nato a Napoli il 7 luglio del 1978 Non lo conosco, ho letto il suo nome sulle carte ma non l’ho mai visto».

Francesco Danese, «nato 25 dicembre del 1981 alias “bei capelli”. Ho già parlato di lui, ribadisco che stava con Gaetano Cifrone e si occupava delle estorsioni ai cantieri. Quando sono stato in carcere a Secondigliano ho saputo da Oscar Pecorelli che “ bei capelli “ si riforniva di cocaina da omissis e la rivendeva a me anche Oscar. Anche lui Gaetano Cifrone guada-gnava sulle estorsioni a percentuale sugli incassi, circa il 20% ma non era una quota fissa. Ovviamente facevano le estorsioni a nome mio ma me ne nascondevano molte».

Carmine De Angioletti, «nato a Napoli il 29 novembre del 1993. È figlio di Giulio. Mi ha accompagnato qualche volta a casa del padre di Antonella, sta vicino al padre ma non so dirvi di preciso di cosa si occupa veramente».

Giulio De Angioletti. «Ho già parlato di lui. È parte della famiglia Lo Russo da 30 anni, prima stava appresso a mio fratello Mimmo,poi vicino a mio fratello Peppe, gli faceva tutti i servizi. Come ho già detto Giulio si occupava in particolare delle estorsioni, dei recuperi, del settore degli ospedali. Ha fatto anche da intermediario con mio figlio Enzo e con Mariano per uno scambio di droga con una Signora che in cambio di erba diede cocaina. In seguito al fatto di cui ho parlato prima relativo ai soldi della estorsione a Mario Cerrone, lo volevo morto e dico anzi che è vivo per miracolo, solo perché mio figlio Enzo mi ha fatto riflettere».

Gerardo De Leo. «Non lo conosco di persona ma dico che “bei capelli “ e Cifrone mi dicevano che si avvalevano di un ragazzo per andare a bloccare i cantieri e mi hanno fatto questo nome, mi hann0 cioè parlato di un Gerardo senza dirmi il cognome».

Anna Gargano. «È la moglie di mio nipote Tonino, l’ho conosciuta quando sono stato scarcerato è venuta subito a trovarmi e siamo andati a mare insieme anche con il figlio Salvatore. Le ho dato anche in un paio di occasioni 1.000 euro ma a titolo di regalo perché non aveva certo bisogno di soldi visto che gestisce tutti i soldi del marito, ha tutto in mano lei anche se piange sempre miseria. So per certo che ha in mano i soldi del marito e di tanto ne ho parlato con le mie nipoti, le sorelle di Tonino perché non mi fidavo ed avrei preferito che i soldi di Tonino li avessero le sorelle. Temevo cioè che lei non potesse non aspettare in eterno il marito e quindi avrei preferito che i soldi di Tonino li avessero le sorelle. Quando ho tolto la mesata a Titina ,la moglie di mio fratello Salvatore, Annalisa è venuta a lamentarsi da me. Fino a Natale circa ho dato 1000 euro a Titina poi ho deciso di toglierla perché dopo aver letto le dichiarazioni di mio fratello Salvatore ho capito che mia cognata Titina sapeva da tempo che il marito era un confidente del dottor Pisani e non aveva detto niente. Questo è il motivo per cui le ho tolto la mesata non per il pentimento di mio fratello ma per il fatto che lei sapeva che il marito era confidente di Pisani, e nei colloqui parlavano di lui chiamandolo avvocato. Mio fratello Salvatore bugie non ne dice quindi se ha detto che la moglie sapeva del suo rapporto con Pisani è vero. Del resto io ho chiesto spiegazioni a mia cognata Titina a mezzo lettera e lei non mi ha risposto. In particolare ho chiesto a Titina di spiegarmi quale avvocato poteva mai averle detto di dire a Salvatore di “non fare colpi di testa “, ben sapendo che nessun avvocato difensore di mio fratello poteva avere detto una cosa del genere e lei non mi ha risposto.Ho quindi avuto conferma che il termine avvocato era riferito .. omissis...Tornando ad Annalisa, quando ho tolto la mesata alla suocera lei è venuta a lamentarsi ma io le ho spiegato perché lo avevo fatto e lei ha capito anche se cercava di insistere dicendo che era la madre di Tonino. Annalisa come ho già detto ha il panificio “Oro Bianco “ insieme a Peppe lovende usando il nome di famiglia . Con lei come con gli altri panifici sono dovuto intervenire per raggiungere il nuovo accordo ed ottenere la parte che mi spettava visto che imponevamo il pane utilizzando il nome dei Lo Russo. Ci siamo accordati come vi ho già spiegato con la somma mensile di 1500 euro da Annalisa e Peppe che gestisce il forno di Annalisa,1500 Gaetano Milano, 1000 Lombardi e 1000 Enzo “facciaverde" . Aggiungo che da ultimo stavo ai domiciliari per la resistenza che avevo fatto ai poliziotti, Annalisa venne a trovarmi sempre per la vicenda del pane a proposito del comportamento di mio nipote Enzo “faccia verde “. In particolare Annalisa mi chiese di intervenire con mio nipote perché stava proponendo il suo pane al posto di Annalisa, insomma si venne a lamentare che per colpa di Enzo i negozi stavano prendendo meno pane da lei. Poi mi avete arrestato quindi non ho fatto in tempo ad intervenire».

Giuseppe Loffredo. «È Peppe del forno di cui ho parlato, gestisce il panificio di Annalisa e Tonino, con lui mi sono incontrato diverse volte a casa di mia sorella Dora ed a casa del padre di Cutarelli. Alla fine ci siamo accordati per la somma di 1500 euro al mese tramite Giulio».

Antonio Lombardi. «Anche con lui mi sono incontrato sia da mia sorella Dora sia dal Padre di Cutarelli per la vicenda del pane. È il fratellastro di Marco Corona, non so se da parte di madre o di padre. Il figlio di Lombardi è stato sparato dalle guardie durante una rapina.

Vincenzo Lo Russo di Domenico. «È mio nipote di cui ho parlato a proposito del pane, imponeva il pane da tutte le parti. È un ragazzo che considero cattivo come il padre, ho parlato con la madre Giulia avete sentito la conversazione ed ho chiarito con lei che il figlio doveva darmi quello che mi spettava. Poi lui ha parlato con Giulio e si sono accordati per la somma di 1000 euro al mese».

Domenico Rusciano, «alias“Giarettella “ Non lo conosco»

Gaetano Milano «È il figlio di Totore Milano, socio mio nella droga attualmente detenuto. Il figlio invece con me non ha fatto droga ma gestiva il panificio a Marianella insieme alla moglie ed imponeva il pane. Avevo fiducia di lui perché me lo sono cresciuto e quindi volevo fare gestire a lui e Giulio questo discorso pane».

Ciro Perfetto. «Ne ho già parlato anche a proposito degli omicidi. È un killer e si occupa anche di droga».

Gennaro Ruocco. «Non ha fatto omicidi ma ha partecipato ad azioni dimostrative nel don Guanella, a varie sparatorie stava nel gruppo di Ciro. Gli facevo qualche regalo ogni tanto ma lui dipendeva da Ciro che lo manteneva. Ho già riferito poi dell’incidente in cui ha perso la vita quella donna per come mi ha raccontato Luigi Cutarelli».

Mariano Torre «È un killer, si occupava anche di droga ed ha trattato l’estorsione del parco Janfolla di cui ho parlato. Dopo questo sequestro delle armi che abbiamo perso non mi fidavo più di Luigi e quindi le armi che avevo acquistato in seguito le ho affidato a lui. Non le avete trovate, le aveva Mariano non so appoggiate dove».

FONTE: IL ROMA

«Ecco chi faceva parte del gruppo di fuoco». Il pentito fa i nomi dei killer: prendevano 5mila euro

NAPOLI. Il terremoto giudiziario che sta per scatenarsi dai racconti del boss neo pentito Carlo Lo Russo è appena agli inizi. L’ultimo della famiglia degli storici “Capitoni” di Miano in ordine di tempo a passare dalla parte dello Stato, dopo i fratelli Salvatore e Mario, ha raccontato agli investigatori tutto quello che è accaduto negli ultimi due anni nella geografia criminale non solo nell’area a Nord di Napoli, ma anche tutti i rapporti con gli altri clan della provincia e della città.

Ha fatto i nomi degli insospettabili, dei killer, di tutti quelli che erano sulla “busta paga” del clan ogni mese. Un fiume in piena insomma. Carlo Lo Russo ha spiegato alla Dda come funzionava la sua “holding criminale” da oltre 100mila euro al mese di spese. In primo luogo circa 40 detenuti da mantenere a 1500 euro al mese. Solo Antonio Tipaldi e Antonio Lo Russo, figlio del fratello Giuseppe, prendevano 2mila euro a testa perché accusati del duplice omicidio Manzo e D’Amico. Poi c’erano le vedove come quella di Domenico Raffone (il genero ucciso da Fabio Cardillo) alla quale andavano 2mila euro al mese. Agli affiliati invece toccavo lo stipendio di 1500 euro al mese anche se come ben sapeva il boss in molti “arrotondavano con i fuori mano” sulla vendita di droga. E poi c’era la batteria di killer. E a tale proposito ecco cosa dice su Luigi Cutarelli in carcere da tre mesi per essere l’esecutore materiale dell’omicidio di Pasquale Izzi.

Ecco il racconto del boss: “…Luigi Cutarelli, ne ho già parlato, è un mio affiliato, è un killer ed inoltre preposto alle piazze di droga del Don Guanella. Prendeva più degli altri. All’inizio 500 o 600 euro a settimana. Mangiava quasi tutte le sere a casa mia, stava sempre con me, lo tenevo in considerazione perché avevo saputo da Lellé omissis omis- sis. Capì subito che era un ragazzo valido e me lo misi subito al mio fianco. È uno che spara. Sotto la mia direzione ha fatto diversi omicidi di cui ho già parlato in altro verbale…”. Ai killer spettava la “mesata” di cinquemila euro al mese. E in fine ci sono i guadagni del boss, di suo figlio Vincenzo e del nipote, ora latitante, Vincenzo Lo Russo ‘o signor.

FONTE: IL ROMA

Vanella Grassi, incubo della faida interna al clan. Ecco chi è il nuovo boss

SECONDIGLIANO. Gli investigatori stanno cercando di capire cosa si muove all’interno del mondo criminale della zona di Napoli Nord dopo gli scossoni dei mesi di maggio e giugno culminati con l’arresto del boss fantasma Umberto Accurso della Vanella Grassi e dopo i recenti fatti di sangue con “stese” nella zona di Secongliano ma anche il clamoroso ferimento del giovane “erede al trono degli scissionisti” avvenuto a Melito in cui persero la vita due suoi affiliati. Il pentimento di Carlo Lo Russo sta contribuendo a fare luce sulle nuove alleanze criminali nella zona a Nord di Napoli con la famiglia Licciardi della Masseria Cardone guidata da Maria e dal nipote Pierino e poi i “Girati” o ex della Vanella Grassi e gli Amato-Pagano confinati a Melito. Se da un lato i Licciardi e gli “spagnoli” non sembrano avere problemi di leadership il problema esiste eccome nel tormentato gruppo della Vanella. Senza più un leader il gruppo, che negli ultimi anni dal centro di Secondigliano (via Dante, corso Italia e vico Lungo Ponte) si è allargata al Lotto G di Scampia e nei vicini comuni di Casavatore e Qualiano, è alle prese con un vivace nuovo ricambio generazionale. Il ceppo principale nato in mano al boss Salvatore Petriccione ( totor ‘o marenar) e poi ai suoi nipoti (Antonio Mennetta, Rosario Guarino, ora pentito, Fabio Magnetti, Antonio Accurso, anch'egli pentito e per ultimo Umberto Accurso), ora sarebbe nelle mani di un noto pregiudicato del rione Berlingieri, parente di Carmine Grimladi ‘o bombolone, ucciso nel 2007 a San Pietro a Patierno. Questa riorganizzazione però non è piaciuta alla base tanto che nelle scorse settimane un gruppetto della zona del Perrone avrebbe reclamato più spazio e autonomia e dando vita alle due “stese” costate il ferimento della ragazza affacciata al balcone di casa al Corso Secondigliano e quella del miracoloso mancato ferimento di una mamma e della sua piccola che erano in auto in piazza Di Vittorio. E poi ci sono stati gli spari contro l’auto di Mariano Aporta, fratello di Domenico ucciso nello scorso ottobre a San Pietro a Patierno in un agguato nel corso del quale lo stesso Mariano riuscì miracolosamente a salvarsi. Ora un nuovo segnale contro di lui con gli spari nella sua auto in via Cupa Santa Cesarea alla Mianella. 

METROPOLIS

sabato 2 luglio 2016

Droga nel basso Lazio, sgominata gang legata al clan Licciardi di Secondigliano. NOMI E FOTO


NAPOLI. Alle prime ore dell’alba gli Agenti della Squadra Mobile di Latina – IV Sez. Antidroga congiuntamente ai colleghi del Commissariato di P.S di Terracina portavano a termine un’operazione di Polizia Giudiziaria dando esecuzione a dieci Ordinanze di Misure cautelari personali emesse dal GIP del Tribunale di Latina Pierpaolo Bortone su richiesta del sostituto procuratore della Repubblica Marco Giancristofaro. I provvedimenti notificati hanno natura restrittiva per 6 soggetti di cui, nello specifico, quattro in carcere e due agli arresti domiciliari, mentre altri quattro indagati sono destinatari di misure di natura coercitiva qual’ è l’obbligo di firma presso la polizia giudiziaria.



Alla complessa operazione di polizia giudiziaria è stato dato il nome di “Terminal” in ragione del fatto che gli indagati, per non essere intercettati dalle forze di polizia ed eludere le investigazioni, utilizzavano svariati mezzi di trasporto pubblico che cambiavano frequentemente limitando al massimo l’eventualità di essere seguiti. Non a caso le indagini hanno impegnato gli Agenti in lunghi pedinamenti tra le provincie di Roma e Napoli ove avvenivano gli approvvigionamenti di sostanze stupefacenti destinate al mercato di Latina e di Terracina. 

INTIMIDAZIONI E LEGAMI CON “IL CLAN LICCIARDI” – I responsabili di tali illecite attività si sono distinti altresì per l’efferatezza dimostrata più volte in occasione delle mancate riscossioni di crediti. Gli stessi infatti, non solo davano prova di essere in possesso di armi da sparo che esibivano per affermare la propria leadership criminale ma, come appurato dagli inquirenti, più volte le utilizzavano esplodendo colpi d’arma da fuoco a scopo intimidatorio. La ricostruzione di tali fatti, verificatisi anche in luoghi pubblici di Terracina e S. Felice Circeo, è stata difficoltosa per gli investigatori anche a causa delle poca collaborazione delle persone presenti ai fatti. Non a caso il calibro criminale, dato dai precedenti penali di alcuni degli indagati e la diretta discendenza di Gennaro Marano, 20 anni domiciliato a Castelvolturno, con uno dei più temuti clan camorristici campani “ il Clan Licciardi”, contribuiva ad elevare la caratura criminale degli stessi alimentando il timore di intimidazioni e rappresaglie. 

In carcere sono finiti MARANO Gennaro (detto Genny) di anni 19, alias “il Campano”, perchè domiciliato a Castelvolturno in provincia di Caserta, MENICHINI SANTOS Bruno (detto il brasiliano) di anni 26, CASCARINI Alessandro (detto il Giaguaro) di anni 31. agli arresti domiciliari: MAUTI Marco (detto Morfeo) di anni 20, DAL RE Giorgia (detta Ursula) di anni 24. Obblighi di firma per: MATTEI Emilio di anni 25, GALLINARO Marco di anni 20, DI MAURO Vanessa di anni 23, CALANDRINI Christian (detto GAS) di anni 37.

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Pistole puntate in faccia ai bambini. La guerra di Camorra a Napoli non risparmia nessuno

NAPOLI. Quattro scorribande armate nel cuore del Rione Traiano contro le abitazioni di due affiliati al clan Tommaselli in libertà, ieri la sentenza di primo grado nei confronti di Alfredo Sarianiello, 47 anni, Cesare Mautone di 25 anni, Vincenzo Mennone, 26 anni e Antonio Marra. I quattro erano accusati di concorso in minacce armate con l’aggravante mafiosa. Ieri con la decisione del giudice si è chiusa la prima fase del processo che ha visto Alfredo Sorianiello condannato a 5 anni, e tre anni e dieci mesi nei confronti di Mautone, Mennone e Marra. Il blitz scatto il 17 dicembre scorso quando Alfredo Sorianiello, reggente del clan Grimaldi di Soccavo fu bloccato in una comunità a Montenero di Bisaccia in provincia di Campobasso. Con lui furono arrestati il nipote Cesare Mautone e Vincenzo Mennone. Quest’ultimo, inizialmente sfuggito alle manette, fu rintracciato il giorno dopo. A dicembre riuscì a farla franca Antonio Marra, arrestato poi l’11 febbraio scorso a Trentola Ducenta là dove si nascondeva da circa due mesi. Le scorribande armate sono avvenute il 28 febbraio 2015 e a seguire, il 7 marzo, il 7 giugno e il 17 novembre. Nel mirino c’era soprattutto Francesco Minichini, fratello di Maurizio, ma entrambi non hanno avuto alcun ruolo nell’omicidio di Fortunato Sorianiello, il 13 febbraio 2014. A contribuire alle indagini la denuncia di una donna imparentata con gli obiettivi dei raid. In un’occasione ai due bambini, figli della donna che ha dato la svolta alle indagini, sono state mostrate e puntate le pistole in via Catone da uomini in sella a ben sei motociclette. Secondo l’accusa il ras Alfredo Sorianiello voleva vendicarsi, prendendosela con gli unici due affiliati al clan Tommaselli in libertà, del figlio Fortunato. E così insieme con i suoi accoliti aveva preso di mira l’intera famiglia. L’inchiesta si è avvalsa pure della collaborazione di un neo pentito, Emilio Quindici, il quale ha puntato il dito contro il boss detenuto Carlo Tommaselli per l’agguato nel salone di barbiere in cui perse la vita il primogenito di “’o nir nir”. Le indagini sulle scorribande armate, con tanto di minacce alla donna e ai figli minorenni, furono condotte dai poliziotti di San Paolo in pochi mesi.

FONTE: IL ROMA

Smantellata piazza di spaccio dei Girati

blitz girati
Di Dario Moio


NAPOLI – I carabinieri della compagnia Stella hanno eseguito cinque ordinanze di custodia cautelare con l’accusa di spaccio di sostanze stupefacenti in concorso tra loro.


Si tratta di Pietropaolo Nitrone, 30enne di Piscinola; Mario Orsi, 55enne di Scampia; Rosario Rumieri, 30enne di Scampia; Antonio Amato, 22enne di Secondigliano e Salvatore Ruggiero, 26enne, anch’egli di Scampia, Quest’ultimo è l’unico che era già detenuto e il provvedimento restrittivo gli è stato notificato a Poggioreale. I militari hanno scoperto una fiorente attività di spaccio all’interno del lotto P di Scampia in maniera “scientifica”.

Ognuno aveva una specifica mansione: vedetta, spacciatore, custode dei soldi della vendita. La “piazza” funzionava da mattina a sera, ma non di notte non essendo sufficiente il numero di addetti per una copertura 24 ore su 24. Gli arrestati sono stati tutti portati al carcere di Poggioreale, tranne Antonio Amato che è stato riaccompagnato a casa per gli arresti domiciliari

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Parla Rosa, la ragazza colpita per sbaglio dalla camorra: “Voglio andare via da qui”

rosaDi Gianluca Russo

NAPOLI – “Me ne voglio andare via da qui, basta”. Queste parole piene di rabbia e di tristezza, e prive di speranza, sono state pronunciate da Rosa, 20 anni, ferita qualche settimana fa da uno dei colpi di pistola sparati in aria in una delle cosiddette “stese” di camorra e che casualmente l’hanno sorpresa mentre era affacciata al balcone di casa a Napoli, in Corso Secondigliano, nei pressi della rotonda di Piazza Capodichino. “Mi sono trovata – racconta la ragazza intervistata dal programma di Raiuno ‘La vita in diretta’ – con una pallottola che mi è entrata nell’addome da un lato ed è uscita dall’altro. Fortunatamente non sono stata colpita in organi vitali e non so nemmeno io come non sia rimasta almeno paralizzata”.

La camorra, quella che spara senza guardare in faccia a nessuno, ha ancora una volta rischiato di provocare morte innocente, come nel caso, soltanto l’ultimo, di Ciro Colonna, 19 anni, ucciso per sbaglio a Ponticelli. “Qui non c’è futuro, non è giusto quello che accade, voglio andarmene”- conclude l’intervista in lacrime Rosa, passandosi una mano sugli occhi bagnati.

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giovedì 30 giugno 2016

Scampò ad un agguato a Giugliano. «Ci serve un favore, uccidete Cardillo»

NAPOLI. E' ancora il super pentito Antonio Accurso a svelare i dettagli dell'omicidio di Mimmo Raffone e del ferimento del boss, oggi collaboratore di giustizia, Mario Lo Russo. Protagonista della vicenda Fabio Cardillo, affiliato ai Capitoni, ma in rotta di collisione con i vertici dell'organizzazione criminale, come si evince dalle dichiarazione, qui di seguito riportate dell'ex capo della Vanella Grassi.

Si consideri che quando io sono stato scarcerato, nel maggio del 2013, referente per il clan Lo Russo era LELLE’, ma la scarcerazione di Mario Lo Russo ovviamente determinò dei cambiamenti nel senso che lui riprese il comando e ci disse che parlare con Lelle’ era come parlare con lui, ma allo stesso tempo vi era Ettore Bosti che, benché appartenga ai Contini, è comunque legato da rapporto di parentela con i Lo Russo in quanto ha sposato una figlia di Mario Lo Russo. Non a caso Ettore Bosti come ho detto è stato presente a questi incontri ed è stato incaricato proprio da Mario Lo Russo per il pagamento di quella fornitura di cocaina. 

Inoltre vi è stato un problema legato a Fabio Cardillo, fratello di Antonio. Io già conoscevo Fabio Cardillo, in quanto lavorava con il fratello Antonio che aveva una piazza di erba e faceva i passaggi di mano di cocaina dove aveva un rimessaggio di barche. A fine settembre, inizio ottobre, del 2013 Fabio Cardillo venne da me nella Vinella a dirmi che il fratello in carcere aveva parlato con uno dei nostri, non ricordo se con Mennetta o Petriccione, riguardo alla possibilità di fare affari insieme nel settore della vendita del pane. Mi disse che aveva avuto dei problemi con i Lo Russo, in particolare con Mario Lo RUSSO che si era preso anche una sua casa popolare, in cui era andato a vivere Ettore Bosti con la moglie, e mi propose di entrare nel business del pane, cioè mi disse che aveva un forno per il pane e voleva entrare nella fornitura di pane nelle nostre zone dandoci la percentuale che quantificò in circa 10.000 euro al mese. 

Io lo misi in contatto con Nicola Coppetta delle Case bianche e celesti e l’affare è andato in porto anche se con un guadagno inferiore a quello che Fabio mi aveva garantito. Dopo poco Fabio Cardillo ha avuto un agguato a Giugliano nella sua vecchia abitazione. L’ho saputo da Luciano Pompeo che venne insieme al Calabrese e a un ragazzo con gli occhiali che chiamiamo o’ Ti. Mi dissero che avevano avuto questo scontro a fuoco con Fabio, che lui aveva risposto al fuoco e mi chiesero a titolo di favore di occuparmi io del suo omicidio. Era il periodo in cui si era da poco pentito Pacciarelli Mario e quindi io dissi che non era il momento di fare questa cosa. Mi dissero che avevano fatto questo agguato a Fabio perché lui si era rifiutato di versare ai Lo Russo una quota dei proventi delle sue attività illecite ed anche che erano preoccupati che lui potesse uccidere qualcuno di loro, avendo saputo che aveva acquistato un borsone di armi da degli albanesi. 

Nicola Coppetta mi confermò che i Lo Russo avevano fatto questo agguato a Fabio. Nicola mi disse che Fabio dopo questo agguato camminava armato e voleva parlarmi, accettai quindi di incontralo, venne da me e mi raccontò quello che era successo, mi disse che erano stati i Lo Russo che erano incappucciati ma era sicuro che erano stati loro. Fabio mi disse anche che era presente la moglie ed il cognato, non Giovanni Lista, altro cognato credo dal lato della moglie di cui non ricordo il nome. La moglie apprendo da Lei chiamarsi Valeria Corona ma non mi viene in mente il nome del cognato. Io suggerii a Fabio di “stare chiuso”nelle nostre zone, di stare attento e di stare armato, cosa che lui faceva già. 

Accadde poi che il fratello Antonio Cardillo spedì dal carcere una lettera ai Lo Russo in cui chiariva che dovevano avere a che fare con lui e non con il fratello, insomma si prendeva le sue responsabilità invitando i Lo Russo a lasciare stare il fratello. Luciano Pompeo e Salvatore Silvestri mi raccontarono di questa lettera e mi chiesero di fare da garante con Fabio Cardillo di calmare le acque, nel senso che loro si impegnavano a lasciarlo stare ma volevano tramite me garanzia che lui facesse altrettanto. Io parlai quindi con Fabio Cardillo e lo informai che io avrei garantito la pace tra lui ed i Lo Russo. La cosa quindi si calmò sino ad arrivare all’omicidio di Mimmo Raffone. 

Accade infatti che io avevo partecipato ad una fornitura di droga dall’Olanda propostami da Valerio e Luciano che trafficavano in droga, droga che io acquistavo da loro che la compravano in Olanda. Mi proposero poi di fare una puntata con loro ed io diedi loro 66.000 euro per un acquisto di 3 kg di droga, due pagati ed uno a fiducia. Questo carico di droga di circa 10 kg, non andò in porto perché ci fu un sequestro di 220,000 euro eseguito dalla Dda di Salerno fatto alla società di trasporto. Dico che è la Dda di Salerno perché mi fecero vedere una carta del sequestro, era gennaio o febbraio del 2014. 

Dopo poco da questo sequestro andai a Miano ed ebbi un altro incontro, questa volta casuale, con Mario Lo Russo, Mimmo Raffone, Luciano, Valerio e Salvatore Silvestri. Seppi che anche Mario aveva partecipato a questo acquisto dall’Olanda ed aveva perso 66.000 euro come me. In questa occasione si parlò di nuovo di Fabio Cardillo perché Mario ed anche gli altri dissero che faceva soldi con la droga, senza contribuire alle spese del clan a differenza di loro che si prendevano cura degli affiliati e dei detenuti. Mi proposero di fare una truffa a Fabio cioè di farmi dare una fornitura di erba e di non pagargliela, e mi proposero anche di ucciderlo. Io mandai a chiamare Fabio e lo incontrai sul campo di calcetto a Corso Italia a Secondigliano e gli contestai che avevo saputo dei suoi affari con l’ erba che mi aveva taciuto, lo rimproverai per non avermi messo al corrente dei suoi guadagni con l’erba e lui si rese disponibile a darmela a prezzo di costo. Questo accadeva qualche giorno prima dell’omicidio di Mimmo Raffone. In questa occasione lui mi parlò dei problemi che stava avendo con la moglie del fratello che aveva degli orologi del fratello che non voleva restituirgli ed io mi resi disponibile a risolvergli il problema mandando qualcuno a parlare a Miano. Mandai a chiamare Luciano Pompeo per risolvere questa cosa degli orologi e lui mi disse che il problema era risolto perché il padre di Fabio Cardillo aveva parlato con Mario Lo Russo ed avevano chiarito. Io mandai un nostro affiliato, Totti, a dire a Fabio che poteva andare a prendersi questi orologi. Luciano mi disse anche che Mario Lo Russo aveva avuto discussioni con Lellè e lo aveva messo da parte e che lui era diventato il suo portavoce. 

Questo è accaduto qualche ora prima dell’omicidio di Mimmo Raffone che è avvenuto la sera del sabato. Ho appreso dell’omicidio da Internet ed ho immaginato che potesse essere opera di Lelle’ per quanto mi aveva detto Luciano sui dissidi avuti con Mario, invece il giorno dopo ho saputo da Luciano Pompeo e poi da TOTTI che Mimmo Raffone era stato ucciso da Fabio Cardillo. In particolare la mattina successiva all’omicidio mi trovavo al centro scommesse di via Improta a Secondigliano insieme a mio fratello Umberto, Corcione Giuseppe, Fabio Di Natale ed altri affiliati quando vennero Luciano Pompeo e Gianluca, altro loro affiliato che sono in grado di riconoscere, e ci chiesero notizie dell’accaduto. 

In particolare loro sapevano che FABIO Cardillo aveva sparato a Mimmo Raffone ed a Mario e lo andavano cercando. Inoltre pensavano che insieme a Fabio durante la sparatoria potesse esserci stato il nostro affiliato Totti, persona che lavorava l’erba con Fabio Cardillo. Noi dicemmo loro che Totti non era coinvolto e per dargliene prova lo convocammo subito a casa mia facendo nascondere Luciano e Gianluca nel bagno. Totti venne a casa mia e ci spiegò che Fabio stava con il cognato di cui non ricordo il nome, che era andato dalla moglie di Antonio Cardillo a prendersi gli orologi e si era imbattuto in Mario Lo Russo e c’era stata questa sparatoria in cui era stato ucciso Mimmo Raffone. Totti ci raccontò anche che, dopo l’omicidio, Fabio Cardillo era andato da lui nelle case bianche e celesti e gli aveva portato la pistola che lui aveva provveduto a distruggere e che si era poi allontanato per fare perdere le sue tracce appoggiandosi da Gaetano Monaco, un rapinatore che conosco bene perché lavorava con la droga con Fabio Magnetti. Luciano e Gianluca hanno quindi sentito il racconto e si sono convinti della nostra estraneità ai fatti. 

Andato via Totti, abbiamo quindi parlato con Luciano Pompeo che, dopo essersi convinto che Totti non stava con Fabio Cardillo, ci chiese di aiutarli per localizzare Fabio Cardillo volendo a tutti i costi vendetta. Inoltre ci raccontò di quello che avevano fatto a Lista Giovanni cioè del fatto che lo avevano colpito se non sbaglio con un cacciavite per sapere da lui notizie sul cognato. Mi fece i nomi di Valerio e di Salvatore Silvestri come persone che presero parte oltre a lui a questa aggressione. Dopo poco ci sono stati gli arresti che voi avete fatto per questa vicenda e quindi gli equilibri sono di nuovo cambiati perché avete arrestato Luciano Pompeo e Mario Lo Russo. Rimasero invece liberi Silvestri Salvatore, Gennaro Palumbo ed Enzo il fratello di Lellè, quest’ultimo invece si diede alla latitanza così come Giggiotto. 

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