martedì 24 luglio 2012

Camorra Food Spa, dalla carne alla mozzarella

INTERNAPOLI. Mozzarelle, zucchero, burro, caffè, pane, latte, carne, acqua minerale, biscotti, banane, pesce. Difficile ammettere che quando andiamo a fare la spesa rischiamo di finanziare le organizzazioni criminali. Eppure è così. Il paniere della camorra, di Cosa Nostra, della 'ndrangheta tocca la giornata tipo di un comune cittadino. Ogni gesto, dal primo che compiamo al mattino sino alla cena, può far arricchire i clan a nostra insaputa. Per comprendere come ogni passaggio possa esser dominato dai clan, basta descrivere una giornata.

Si inizia dal bar. Il caffè in molti territori è monopolio dei boss. A volte ne gestiscono la produzione, altre solo la distribuzione. Esempio: il clan Mallardo di Giugliano imponeva ai bar di comprare il caffè Seddio prodotto da una ditta intestata ai D'Alterio, nipoti del boss Feliciano Mallardo. L'operazione della Guardia di finanza "Caffè macchiato" del 2011 ha mostrato che l'imposizione del caffè Seddio era di tipo estorsivo, ma ha anche svelato l'esistenza di un vero e proprio accordo tra il clan Mallardo e i vertici dei Casalesi, che consentivano l'espansione degli interessi dei giuglianesi anche in aree tradizionalmente sotto il loro controllo, previo pagamento di una tangente che veniva versata al "gruppo Setola". Consumare una tazzina di caffè Seddio era molto più di una pausa dal lavoro, era molto più di un modo per trovare energie al mattino: era bere il frutto di un patto, di un'alleanza. Il clan Vollaro di Portici imponeva la marca di caffè "È cafè", prodotto da un cognato dei Vollaro, subconcessionario di El Brasil di Quarto. Spesso le organizzazioni riescono a trattare sui chicchi direttamente in Sudamerica, ne gestiscono la torrefazione e poi la distribuzione. Imponendo la marca di caffè ai bar, accade che iniziano in qualche modo a partecipare alla loro gestione: entrano nelle attività e appena sono in crisi ne rilevano la proprietà.

Sembra un'economia minore, ma garantisce un flusso continuo di denaro ed è un modo per conquistare nuovi territori, per stringere alleanze, per creare coperture. Giuseppe Setola costrinse gran parte dei bar e delle caffetterie dell'agro aversano e del litorale domizio ad acquistare una miscela di caffè di pessima qualità, il Caffè nobis, a un normale prezzo di mercato. Con i suoi fedelissimi aveva costituito un vero e proprio marchio, aperto partite Iva e creato società, per dare all'affare una parvenza di legalità. E poi c'è il Caffè Floriò, che fa capo a Cosa Nostra: imposto a decine di locali di Palermo.

Anche lo zucchero che mettiamo nella tazzina è un business enorme e può essere sospetto. Dante Passarelli, considerato l'imprenditore di riferimento della famiglia Schiavone, era riuscito a divenire il re dello zucchero con la sua società Ipam. Lo zucchero Ipam era ovunque. Eridania, il colosso italiano, denunciò un'espansione innaturale dei prodotti dello zuccherificio di Passarelli. La società fu sequestrata tra il 2001 e il 2002 dalla Dda, da allora il marchio è diventato Kerò. Dante Passarelli morì misteriosamente cadendo da un terrazzo nel 2004 poco prima della sentenza Spartacus. Morendo, i beni congelati tornarono alla famiglia e quindi, presumibilmente, nella disponibilità del clan dei casalesi, di cui Passarelli era stato prestanome. A Napoli, il caffè viene sempre servito con un bicchiere d'acqua minerale. Ma anche l'acqua può essere affare dei clan. Il boss dei Polverino di Marano, Peppe o' Barone, aveva una rete distributiva gigantesca che comprendeva acqua minerale, uova, polli, bevande e, ovviamente, anche caffè. Storia antica questa dell'acqua minerale: la camorra negli anni 80 aveva iniziato a esportare l'acqua campana negli Stati Uniti. Poi d'improvviso le bottiglie smisero di partire da Napoli. Eppure il commercio d'acqua in America continuava. Cosa accadde lo ha raccontato il film di Giuseppe Tornatore "Il camorrista" (tratto dall'omonimo libro di Giuseppe Marrazzo pubblicato nel 1984 da Pironti): il boss o' Malacarne decise di spedire soltanto le etichette, che venivano incollate su bottiglie riempite con acqua di rubinetto di New York. Bastava il marchio, perché, come diceva o' Malacarne: "Che ne capiscono gli americani, tanto quelli bevono la Coca- Cola".

I clan, anche quelli che investono nei mercati finanziari di tutto il mondo, hanno i piedi ben radicati nei Paesi, nelle province, nella terra, nelle cose. E partono da bisogni primari. Dal cibo. Dal pane. Ma poiché sul pane il margine di guadagno è spesso bassissimo, le strategie cambiano. O il racket impone un vero e proprio monopolio nella vendita della farina ai panettieri della zona che, terrorizzati dalle continue minacce, comprano a un prezzo altissimo e completamente fuori mercato una farina scadente e di bassissima qualità (lo racconta l'operazione Doppio zero a Ercolano). Oppure i clan si trasformano in panificatori: hanno spesso forni clandestini che utilizzano per produrre tonnellate di pane da vendere la domenica mattina in strada. Pane clandestino ed esentasse. I forni venivano alimentati evitando di comprare legna costosa e bruciando vecchie bare trovate nei cimiteri, infissi marci, tronchi di alberi morti trattati con agenti chimici: tutto ciò che avrebbe dovuto essere smaltito perché rifiuto speciale, finiva nei forni per cuocere il pane.

E poi il latte. Nulla di male assoceremmo mai al latte: bianco, candido, ricordo d'infanzia. E invece il suo è uno dei mercati più ambiti dalle organizzazioni criminali che presero a proteggere anche quello, anche il latte Parmalat. Il clan dei casalesi e i Moccia avevano praticamente eliminato nelle province di Napoli e Caserta ogni residua concorrenza. Quando qualche ditta riusciva ad abbassare il prezzo del proprio latte, il racket bruciava i camion o imponeva un pizzo elevatissimo costringendo quindi ad aumentare il prezzo per non insidiare il mercato del latte Parmalat. Cirio e Parmalat agivano in regime di monopolio grazie a un obolo che ogni mese versavano ai clan. Era tale la gravità della situazione che a fine anni 90 l'Autorità garante per la concorrenza si trovò costretta a imporre alla Eurolat (acquisita da Parmalat nel 1999) la cessione di alcuni marchi per sanare la situazione.

Pane, latte e burro: un tempo la prima colazione si faceva così. Ma anche il burro per anni è stato al centro degli affari dei clan. Nel 1999, la Dda di Napoli scoprì una vera e propria holding mafiosa che coinvolgeva i maggiori produttori di burro a uso industriale dell'Italia meridionale insieme ad aziende di burro piemontesi e grandi aziende dolciarie francesi e belghe compiacenti. Protagonista la Italburro controllata dal clan Zagaria, che produceva un burro venefico, utilizzando sostanze tossiche, oli per la cosmesi, sintesi di idrocarburi e grassi animali.

Non poteva sfuggire il mercato della carne, da sempre settore con una forte influenza mafiosa, come già aveva denunciato Giancarlo Siani nel 1985 parlando del clan Gionta nell'articolo che probabilmente lo condannò a morte. Forse l'operazione più importante sul traffico illegale del mercato della carne è stata Meat Guarantor, un'inchiesta conclusasi nel 2002 e condotta dai carabinieri del Nas che ha descritto il coinvolgimento di rappresentanti di tutti i settori della filiera della carne: allevatori, macellatori, proprietari delle macellerie, amministratori pubblici conniventi. L'organizzazione sgominata aveva base a Napoli e in provincia di Salerno, ma si estendeva al nord Italia e in Germania; utilizzava veterinari che certificavano la buona salute di animali che invece erano stati sequestrati perché malati. Ad altri animali, privi di documentazione sanitaria e spesso malati, somministravano medicine perché rimanessero vivi e potessero essere macellati. Recentemente il collaboratore di giustizia Domenico Verde ha dichiarato ai pm: "Si vende esclusivamente la carne delle aziende di Giuseppe Polverino", dell'omonimo clan che già commercializzava acqua. Polverino, camorrista e imprenditore, arrestato pochi mesi fa in Spagna, aveva utilizzato lo spaccio di cocaina e hashish come apripista per le sue imprese nel settore alimentare. Aveva i piedi saldi a terra, saldi nella sua terra, e utilizzava l'attività criminale per sostenere l'impero dei generi alimentari.

E poi c'è la frutta: la camorra fa da tramite dall'Africa al mercato ortofrutticolo di Fondi e nei porti: senza pagare i clan, non si può scaricare la merce che rimane a marcire nei container. L'operazione della Dia Sud Pontino svelò un patto tra Cosa nostra e camorra per controllare ortofrutta e trasporti. Fondi, in provincia di Latina, era lo snodo centrale per controllare il mercato della frutta e della verdura al centro-sud e anche in alcune zone del nord. Il clan dei Casalesi, i Mallardo, i Licciardi, insieme alle famiglie mafiose siciliane dei Santapaola-Ercolano di Catania, imponevano il monopolio dei trasporti facendo fluttuare i prezzi. Non solo Fondi, anche la frutta e la verdura nel nord Italia hanno avuto un controllo mafioso. L'ortomercato alla periferia sud-est di Milano è stata una delle piazze in cui la 'ndrangheta ha compiuto molti dei suoi affari, controllando ampi settori della filiera agroalimentare. Non esisteva mela, pera o melanzana trasportata in tutta Italia che non portasse nel suo prezzo la traccia dell'affare mafioso.

Allearsi con le mafie spesso significa distribuire i propri prodotti a prezzi migliori, a condizioni vantaggiose. Non è raro che importanti marchi finiscano per essere rappresentati da agenti dei clan. Agli inizi degli anni Duemila, un affiliato del clan Nuvoletta, Giuseppe Gala detto Showman, aveva acquistato importanza nel clan proprio perché nel business alimentare sapeva muoversi. Era diventato agente della Bauli. I Nuvoletta tra l'altro imponevano il raddoppio del prezzo del panettone Bauli a Natale come "tassa" per sostenere le famiglie dei detenuti in carcere.

Infine c'è la mozzarella, prodotto campano d'eccellenza, nel mirino delle organizzazioni da sempre. I casalesi importavano latte proveniente dall'est Europa, dove avevano allevamenti di bufale, mozzarelle romene che venivano vendute come mozzarelle casertane. Poi hanno iniziato a importare a basso costo le bufale dalla Romania, per infettarle con sangue marcio di brucellosi e guadagnare dall'abbattimento. Inquinare con affari mafiosi la produzione di mozzarella significa compromettere una delle storie culturali ed economiche più preziose della Campania. E i clan lo fanno da decenni. Nella vicenda che ha portato all'arresto di Giuseppe Mandara e al sequestro dell'azienda è emerso che grazie al rapporto con i La Torre, l'imprenditore aveva tratto vantaggio dalla rete criminale messa a disposizione dal clan e dalla sua condotta mafiosa. Non solo ci sarebbe un rapporto economico, ma anche un appoggio strategico. Mandara, secondo le accuse, utilizza una prassi tipica della logica mafiosa: per abbassare i costi utilizza prodotti di scarsa qualità o mischia tipi di latte diverso. Nelle mozzarelle di bufala prodotte da Mandara era infatti presente anche del latte vaccino in percentuali considerevoli. Le mozzarelle di bufala venivano quindi messe in commercio con l'indicazione Dop anche se il procedimento non l'avrebbe affatto consentito.

Ultimo viene il dolce. I clan sono riusciti a infettare, secondo la Dda di Napoli, persino uno dei marchi di pasticceria industriale più famosi d'Europa: la Lazzaroni e i suoi amaretti. Secondo le accuse dell'antimafia, capitali criminali avrebbero risollevato aziende del Nord in crisi sanando i conti e facendo chiudere i bilanci in attivo. Un miracolo in tempo di crisi. È un salto di qualità: la trasformazione del crimine in un'imprenditoria ricca, forte, competitiva. Ma dalle fondamenta marce.

Ciò che dovrebbe far riflettere è che le mafie hanno solo anticipato quei meccanismi che spesso sono diventati prassi nel settore alimentare italiano, europeo e non solo. Essere competitivi, per molte imprese, significa abbassare a tal punto la qualità, da rendere talvolta ciò che si produce al limite dei criteri consentiti per la commercializzazione. Come per ogni settore, prima che arrivino forze dell'ordine e magistratura, i consorzi di categoria sono fondamentali. È fondamentale che chi fa prodotti di qualità pensi di unirsi e tutelare i consumatori, se stessi e il proprio mercato. L'alternativa è che il massimo ribasso non farà vincere la qualità, la bravura, i talenti, ma solo i prodotti più corrotti e le imprese più furbe. Triste destino per l'eccellenza italiana. (Repubblica.it - 23 luglio 2012)

venerdì 13 luglio 2012

Maxi sequestro a Marano, nell'operazione 55 indagati

MARANO. Tra i beni finiti sotto sequestro ieri mattina c'è il ristorante Villa Borghese di Marano, ma anche il cantiere del Patto Antiracket di Via Aniello Falcone al Vomero. C'erano campi da tennis e un parcheggio interrato da 112 box. Quindi dietro l'etichetta "Antiracket", che tutto lasciava intendere meno che le infiltrazioni camorristiche, c'erano i clan di Marano: Nuvoletta e Polverino. Oltre all'arresto di Angelo Simeoli, l'imprenditore dominus dell'operazione portata a termine ieri dalla guardia di finanza, ci sono anche 55 indagati, denunciati e a piede libero. Molti di loro provengono da Marano, ma alcuni provengono rispettivamente da Giugliano, Qualiano, Villaricca, Calvizzano e Napoli.

Angelo Simeoli. E' definito come uno dei più imponenti bracci economici dei gruppi della criminalità organizzata operanti nel territorio di Marano, ovvero i clan Nuvoletta e Polverino. Attualmente è agli arresti domiciliari.

I sequestri. I militari del Gico in azione dalle prime luci dell'alba di ieri, hanno effettuato sequestri a Marano e in diverse parti della provincia. Società provenienti anche da altre città tra cui Roma e Milano. Tra i beni sequestrati, oltre a Villa Borghese e il cantiere del Patto Antiracket, vi sono anche appartamenti tra Napoli, Caserta, Arezzo e Latina, l'Hotel La Mela di Giugliano, terreni tra Napoli e Caserta, Il Domitia Village di Castelvolturno, il Palazzo Polar di Secondigliano, imbarcazioni, auto di lusso e moto, l'Impresa Paragliola Antonietta di Marano, l'impresa Simeoli Carlo di Marano, l'impresa Simeoli Renato di Marano, l'impresa Simeoli Vincenzo dei Camaldoli, Areas Immobiliare di Giugliano, Artigian Progress di Marano, Bamanvi Costruzioni di Giugliano, C.D.P. di Roma, Coop. Costruzioni Generali di Produzione e Lavoro di Giugliano, Copoperativa San Ciro di Marano, Costruzioni Edil Sole di Frattamaggiore, Domitia Residence Tour di Giugliano, Domitia Village di Giugliano, Edil Costruzioni di Calvizzano, Edil Progress soc. coop di Giugliano, Euro Ri. Costruzioni di Qualiano, Flaure Costruzioni di Marano, Gesim s.r.l. di Marano, Giuseppe Simeoli Servizi Immobiliari di Marano, Gruppo P.I. di Orta di Atella (Ce), Hermes Immobiliare di Milano, Holding Project di Chiaia, Immobiliare Belvedere di Milano, Immobiliare Marina di Marano, Immobiliare Posillipo di Giugliano, Immobiliare San Marco di Milano, Industrial Service di Marano, Iniziative Immobiliari e Turistiche di Poggioreale, Ital Group di Orta di Atella, L'Antica Roma di Giugliano, La Nuova Gazzetta di Napoli soc. coop. di Poggioreale, Liternum coop. Produzione e Lavoro di Giugliano, Merlin Costruzioni di Napoli, Mediterranea Costruzioni di Milano, Parco Crtistina soc. coop. di Marano, Polar di Milano, Posillipo Immobiliare di Roma, Mugnano soc. coop. di Quarto, San Marco & C. Tribunali di Napoli, Sider Art di Marano e Sirio Costruzioni Società coop. edilizia.

Nuvoletta, Polverino e Casalesi: sotto chiave beni per quasi un miliardo di euro

MARANO. Era legato al clan dei Casalesi, dei Polverino e dei Nuvoletta l'imprenditore maranese arrestato dai militari del Gico al quale sono stati sequestrati beni per 800 milioni di euro, tra cui la "Villa Borghese" a Marano di Napoli. Il sequestro è stato eseguito dalla Guardia di Finanza di Napoli su ordine dei pm della Direzione distrettuale antimafia ai danni dell'imprenditore Angelo Simeoli, L’indagine ha consentito di ricostruire l’entità del patrimonio dell’imprenditore e individuare numerosi prestanome, titolari di società attive nel settore immobiliare ed edilizio ai quali nel tempo sarebbero stati intestati beni immobili, auto e imprese allo scopo di sfuggire alle indagini.

Angelo Simeoli, nel febbraio 2011, era già stato coinvolto nell'inchiesta che aveva portato all'arresto di 14 persone per aver agito nell'interesse dei gruppi camorristici Zagaria e Bidognetti dei Casalesi e dei clan Nuvoletta e Polverino di Marano, nel Napoletano. Le indagini dello Scico di Roma e del Nucleo di Polizia Tributaria di Caserta hanno permesso di ricostruire l'impero di Simeoli: immobili di lusso, automobili e società edili ed immobiliari in gran parte intestati a prestanome per sfuggire ai controlli. Se il provvedimento di sequestro fosse trasformato in confisca, tutti questi beni, tra cui ville con piscine, appartamenti, locali pubblici, potrebbero essere messi a disposizione della comunità. Simeoli - conferma il tenente colonnello Bruno Salsano, raggiunto telefonicamente - è un imprenditore molto conosciuto in zona. Ha realizzato opere importanti e controverse come l'eco-mostro Domitia Village di Lago Patria. L'uomo, attualmente si trova agli arresti domiciliari per motivi di salute.

Paolo Schiavone era stato arrestato dalla Squadra Mobile di Caserta e dal Centro Operativo Dia di Roma nel maggio 2010, nell’ambito dell’operazione 'Sud Pontino', che aveva svelato le infiltrazioni ed i condizionamenti del clan dei Casalesi ala Schiavone nelle attività dei principali mercati ortofrutticoli del centro e del Sud Italia. In particolare veniva imposto il monopolio dei trasporti su gomma a una ditta di San Marcellino (Ce), formalmente intestata all’imprenditore Costantino Pagano, anche lui arrestato, ma riconducibile direttamente alla famiglia Schiavone, ed in particolare ai gruppi capeggiati da Francesco Schiavone, alias Sandokan, ed all’omonimo cugino Francesco Schiavone, alias Cicciariello, attraverso i rispettivi figli..

L'indagine aveva evidenziato l’importanza assunta dal clan dei Casalesi nel gotha criminale nazionale tanto che, per imporre alla ditta di trasporto il controllo esclusivo nello strategico settore dei trasporti dei prodotti ortofrutticoli sulle tratte da e per la Sicilia, aveva stretto una vera e propria alleanza commerciale, fondata su metodi tipicamente mafiosi, con esponenti di spicco della mafia siciliana e con i loro emissari imprenditoriali, che controllavano il commercio all’ingrosso e la distribuzione di tali beni nei principali mercati dell’isola. In tale contesto erano state emesse oltre 60 ordinanze di custodia cautelare in carcere. L'operazione di oggi ha portato al sequestro, propedeutico alla confisca, di un’azienda di allevamento di bovini e bufalini e produzione di latte, 4 terreni, quota del 50% di terreno, quota del 50% di fabbricato rurale e di un appartamento.

Attore di “Gomorra” condannato a 13 anni

Boss per finta nel film “Gomorra” e ritenuto affiliato al clan dei Casalesi nella realtà. Giovanni Venosa è stato condannato a 13 anni e 8 mesi di carcere dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per tre tentativi di estorsione ed una estorsione aggravati dal metodo mafioso. È nipote del boss Luigi Venosa, ergastolano del processo Spartacus.

IL FILM – Nella pellicola di Matteo Garrone, ispirata al libro di Roberto Saviano, Venosa interpreta un boss della zona Pinetamare, che prima minaccia e poi fa uccidere i due ragazzi protagonisti. La sua battuta, in accento casalese, è “Ve taglie ‘a chep” (“Vi taglio la testa”, ndr).

sabato 7 luglio 2012

Catturato Giuseppe Iovine: era l'erede del fratello

CASERTA. La squadra mobile di Caserta ha arrestato Giuseppe Iovine, 50 anni, fratello del boss dei Casalesi Antonio, detto 'o ninno', e un altro affiliato al clan, Nicola Fedele, 31 anni, con l'accusa di estorsione continuata aggravata dal metodo mafioso. La polizia ha accertato numerosi episodi. Giuseppe Iovine, dopo l'arresto del fratello, stava tentando di ricompattare le fila del clan, ma è stato bloccato nell'abitazione di San Cipriano d'Aversa dove viveva Antonio. L'ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal Gip del Tribunale di Napoli su richiesta della DDA partenopea, giunge a conclusione di indagini che hanno accertato le pressanti e continue richieste di denaro di Giuseppe Iovine nei confronti di alcuni imprenditori e commercianti del Casertano. Richieste di pizzo che venivano rivolte direttamente da Giuseppe Iovine dopo che Nicola Fedele aveva condotto le vittime al cospetto del fratello dell'ex primula rossa del clan dei casalesi arrestata nel novembre del 2010. Le richieste estorsive variavano tra i 200 e i 1000 euro. Confermato anche lo stato di soggezione delle vittime nei confronti dell'esponente della potente ala Iovine del clan di Casal di Principe: nessuna ha ammesso le pretese estorsive. Anzi, dinnanzi agli investigatori, le richieste venivano minimizzate e definite solo piccoli prestiti.

Incendio nel terreno confiscato al boss

La camorra dietro l’incendio che ha distrutto circa 12 ettari di grano in località Cento Moggi a Pignataro Maggiore? Sì, secondo Raimondo Cuccaro, sindaco del comune casertano, dove la scorsa notte un rogo ha cancellato oltre metà del grano pronto per la trebbiatura. Il terreno era stato confiscato al clan Lubrano ed è gestito in via provvisoria dalla cooperativa “Terre di Don Peppe Diana” creata dall’associazione Libera. Con il grano si sarebbero dovuti produrre i “paccheri”, tradizionale pasta napoletana. Quello che è rimasto del grano dopo la furia delle fiamme, verrà mietuto domani.

LA DENUNCIA DEL SINDACO – «Già ieri mattina – racconta il primo cittadino – intorno alle 11 mi ero recato sul posto per un incendio di sterpaglie lungo la strada che costeggia il terreno confiscato. Mi avevano avvisato tempestivamente i vigili urbani; l’immediato intervento dei vigili del fuoco aveva poi scongiurato il propagarsi dell’incendio. Poi ieri pomeriggio avevamo chiamato nuovamente i pompieri per un nuovo allarme. Questa mattina, l’agronomo da me inviato al terreno per dare il via al raccolto ha scoperto che gran parte del grano era andato bruciato. Il rogo sarebbe divampato nei pressi di una strada interna al fondo ma ha avuto origine in più punti; perciò pensiamo sia doloso. L’agronomo ha quantificato il coltivato andato perso nell’ordine del 50-60%. Ora invierò una denuncia alla Prefettura e alle forze dell’ordine».

DON CIOTTI: «NON CI FERMERANNO» – «Continua l’aggressione ai beni confiscati, una rappresaglia continua e reiterata con il chiaro intento di colpire chi lavora per ristabilire legalità e sta realizzando un'economia giusta e sana nel nostro paese. Le mozzarelle, il vino, la pasta, il succo d’arancia, le passate, i tarallini - dice Don Luigi Ciotti, presidente di Libera – fanno paura perché sono prodotti che coniugano il gusto della qualità con la corresponsabilità. Non possiamo più pensare a delle coincidenze, esprimiamo gratitudine verso il Corpo Forestale, il Ministro dell’Interno, le forze dell’ordine per il loro contributo per garantire la sicurezza di quelle realtà. Dall’assemblea nazionale di Libera, conclusasi a Senigallia, il grido del “No” è uscito forte e chiaro: andiamo avanti con più forza e determinazione, quei criminali devono rendersi conto che queste terre in Calabria, in Sicilia, in Campania, nel Lazio e in Puglia sono ormai davvero libere»

Terre di Don Diana: mietitura del grano in risposta alle fiamme della camorra

CASERTA. Località Cento Moggi, comune di Pigntaro Maggiore, in provincia di Caserta: un incendio di natura dolosa ha distrutto oltre la metà del grando pronto per la trebbiatura, sul terreno confiscato al clan Nuvoletta e gestito dalla cooperativa Terre di Peppe Diana, creata dall’associazione Libera.

Martedì mattina la risposta, con la presenza del sindaco del paese, Raimondo Cuccaro, dei volontari guidati dall’agronomo Roberto Fiorillo, da Geppino Fiorenza di Libera, ma anche del presidente della commissione sui beni confiscati della regione Campania, Antonio Amato, che hanno “simbolicamente” scortato i mezzi che hanno proceduto alla trebbiatura del grano restante.



domenica 1 luglio 2012

Un asteroide dedicato a Roberto Saviano

La notizia ha colto di sorpresa anche lo scrittore: un corpo celeste che ruota intorno al Sole (con orbita fra Marte e Giove) porterà il suo nome.

Il nome di Roberto Saviano travalica i limiti terrestri per arrivare nello spazio! Non è un'esagerazione giornalistica ma la più asciutta verità. L'astronomo Silvano Casulli ha scoperto, dall'osservatorio di Vallemare di Borbona (Rieti), un asteroide che ruota intorno al Sole con orbita poco ellittica collocata fra Marte e Giove. Il corpo celeste in questione, ribattezzato dallo stesso Casulla, è (278447) Saviano = 2007 TH, in onore dell'autore di Gomorra.

«GUARDERÒ IL CIELO CON OCCHI DIVERSI» - Lo scrittore napoletano non ha nascosto la propria sorpresa, affidando il suo commento a Facebook: «Mai in vita mia mi sarei aspettato di ricevere una notizia tanto incredibile. Garzie al Dottor Silvano Casulli, che ha scoperto l'asteroide, per aver deciso di chiamarlo col mio nome. Ora guarderò il cielo con occhi diversi».
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Camorra, beni sequestrati a imprenditore affiliato ai Belforte

CASERTA. Dopo le recenti operazioni che hanno portato all’arresto di decine di affiliati del clan Belforte, detti “I Mazzacane”, di Marcianise, l’offensiva della polizia contro la potente organizzazione camorrista prosegue sul fronte dell’aggressione ai patrimoni illecitamente accumulati.

Infatti, giovedì mattina, personale della Divisione polizia anticrimine-sezione accertamenti patrimoniali della Questura di Caserta, ha eseguito un decreto di sequestro di prevenzione, funzionale alla successiva confisca, emesso, ai sensi della normativa antimafia, dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nei confronti di alcuni cespiti riconducibili ai familiari dell’imprenditore Vincenzo Marciano, già oggetto di un misura patrimoniale nell’aprile scorso, allorquando gli venivano sequestrati beni per il valore di oltre 5 milioni di euro.

In particolare, sono stati sequestrati i seguenti ulteriori beni, per il valore di circa 1 milione di euro, siti nei Comuni di Maddaloni: beni strumentali e quote societarie della società “Play World” srl, operante nel noleggio a terzi di slot machine; ulteriori rapporti finanziari intestate a Marciano accesi presso agenzie bancarie; intero patrimonio aziendale di un'impresa individuale operante nel noleggio a terzi di slot machine; quote societarie dell'attività commerciale “Bet and drink cafè”.

La sezione misure di prevenzione del tribunale sammaritano, sulla scorta delle indagini patrimoniali effettuate dalla Divisione anticrimine della Questura di Caserta, ha disposto anche il sequestro di aziende intestate a figli ed affini di Marciano. Infatti, le complesse indagini patrimoniali, poste a fondamento dell’odierno provvedimento di sequestro, hanno consentito di accertare la chiara riconducibilità alla predetta organizzazione camorrista delle suddette attività imprenditoriali, formalmente intestate ai figli ed alla nuora di Marciano, ma di fatto costituenti il frutto del reimpiego e dell’investimento di capitali di illecita provenienza per conto dello stesso clan.

Marciano, che nel 2009 era stato arrestato per associazione mafiosa ma poi prosciolto dall’accusa, titolare di società di noleggio di videopoker ed apparecchiature di intrattenimento, grazie all’appoggio del clan Belforte aveva conquistato una posizione di monopolio nel settore in tutta l’area che rientrava sotto l’influenza criminale della potente consorteria camorrista, comprendente i comuni di Caserta, Marcianise, Maddaloni, San Felice a Cancello, Cervino, Valle di Maddaloni e Santa Maria a Vico. In cambio l’imprenditore versava una parte dei guadagni al clan che gli assicurava il proprio intervento al fine di costringere i gestori di numerosi esercizi ricettivi dell’area a rivolgersi alle sue società per il nolo dei video-poker.

Peraltro, l’esistenza di un accordo tra Marciano e i Belforte, era stato confermato anche dal collaboratore di giustizia Antonio Farina, reggente dei Mazzacane nel comprensorio di Maddaloni, San Felice a Cancello, Cervino e Santa Maria a Vico.

Blitz contro il clan Perreca: 4 arresti

Il sorvegliato speciale Giovanni Perreca chiedeva il pizzo agli imprenditori del Casertano attraverso i suoi emissari. Ecco come...
Era un sorvegliato speciale, ma continuava a chiedere il pizzo agli imprenditori del Casertano. Da poco era stato scarcerato dopo una lunga condanna per omicidio, Giovanni Perreca, attuale reggente dell’omonimo clan di Recale, è stato arrestato insieme ad altre tre persone con l’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso. I provvedimenti sono stati eseguiti oggi dalla Squadra Mobile di Caserta su richiesta della DDA di Napoli.

IL RITORNO DOPO LA DECAPITAZIONE DEI MENDITTI – È stato accertato che i reggenti del clan, fino a pochi mesi fa sottoposti all’obbligo di soggiorno nel Lazio, avevano richiesto ed ottenuto l’autorizzazione a ristabilire i loro domicilii nel comune di origine subito dopo la disarticolazione da parte della squadra mobile di Caserta di un clan avverso, i Menditti, affiliati al clan Belforte, con cui si contendevano il controllo delle attività estorsive nel comprensorio di Caserta e Recale. 


LE ESTORSIONI – In manette anche Antimo Mastroianni, 47 anni, Silverio D’Aria, 51 anni, e Roberto Vittorio, 44 anni. Vittorio, pregiudicato dell’Avellinese, contattava le vittime dicendo loro che «che quelli di Recale li cercavano». In un luogo prestabilito, solitamente la Torre di Recale, gli imprenditori venivano prelevati e condotti al cospetto di Perrella e Mastroianni che imponevano le loro richieste sottolineando anche che, ormai, a comandare erano loro visto che i “marcianisani” del clan Belforte erano ormai scomparsi.
L'INTERCETTAZIONE - Ecco un incontro fra i boss Antimo Mastroianni e Giovanni Perreca, mentre chiedono il pizzo ad un professionista del Casertano. Come si può notare, il clan aveva tanti di quegli “appuntamenti” con gli imprenditori da confondere le richieste di pizzo da imporre:

Imprenditore: «Antimì, qua la situazione è drammatica. Ci sta la gente in cassa integrazione, la gente non ci paga...». 


Mastroianni: «Dacci solo una cortesia...» (l’estorsore chiede alla vittima di corrispondere comunque qualcosa malgrado la crisi, ndr).

Imprenditore: «E che regalo vi devo fare? Dai non... Antimo, non mi mettete... non mi mettete in difficoltà, perché...».

Mastroianni: «Tu non vuoi cacciare niente?».

Imprenditore: «Non ci stanno soldi e testa quindi...». 


Perreca: «Come vi chiamate voi?» (Il boss si accorge che la persona che ha davanti non è quella che aspettava).

Imprenditore: L’imprenditore risponde con il suo nome.

Perreca: «Ma allora non... ma io sto aspettando... ma a chi hai pigliato? Quello è un altro appuntamento fuori la Torre...».
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Omicidio Miano, la ricostruzione: quattro colpi, uno in bocca il messaggio per i "traditori"

di Leandro Del Gaudio
NAPOLI - Quattro colpi esplosi a distanza ravvicinata: tre al viso, uno dei quali in bocca; il quarto, invece - il probabile colpo di grazia - esploso all’altezza della nuca. Avrebbe compiuto diciannove anni tra due mesi, Marco Riccio, l’ultima vittima dell’interminabile faida per la droga nella periferia nord di Napoli.

Ucciso in via Miano, colpito a morte da persone di cui si fidava, punito - forse - da esponenti del suo stesso gruppo criminale.

Piccolo spacciatore - meno di un anno fa fermato e rilasciato nel corso delle indagini successive a una rapina a Secondigliano -, Marco Riccio diventa vittima di una rappresaglia giustizialista decisa all’interno del gruppo della cosiddetta «vannella grassa», la zona di Secondigliano stretta tra corso Italia, via Dante e piazza Zanardelli. Che succede in terra di faida? Perché uccidere un personaggio giovanissimo e apparentemente lontano da posizione di vertice? Perché quei colpi all’altezza del viso e della bocca?

Tante ipotesi sul taccuino degli inquirenti, parlano al momento i fatti di cronaca: appena qualche giorno fa, l’arresto di Fabio Magnetti, uno dei soggetti di spessore del gruppo della «vannella», personaggio cresciuto attraverso la faida di Scampia del 2004 e del 2005 (aveva appena 14 anni, all’epoca), ma anche attraverso la cosiddetta scissione dei cosiddetti «girati» del 2007, con l’ingresso nel cartello degli scissionisti a colpi di morti ammazzati consumati contro i Di Lauro. Dinamiche in cui Marco Riccio potrebbe essere rimasto imbrigliato.

Si parte dall’arresto del 23enne Magnetti, per cercare di capire: quattro giorni fa, le forze dell’ordine fanno irruzione in un covo ritenuto inaccessibile, a prova di talpa, finisce così in manette uno dei capi della «vannella». La scorsa notte, poi, l’agguato in cui viene ucciso Marco Riccio. Decisioni fulminee, che potrebbero portare la firma proprio del gruppo di fuoco della zona dei cosiddetti «girati». Giovani all’anagrafe - età media trent’anni- ma esperti da un punto di vista criminale, da mesi almeno una quindicina di personaggi al centro dell’attenzione di polizia e carabinieri.

Negli ultimi tempi, hanno assunto una posizione autonoma, rispetto ai cartelli degli scissionisti (che fanno capo agli Amato-Pagano) e del clan Di Lauro (riconducibile all’ormai famigerato «F4», il latitante Marco Di Lauro, quarto figlio di Paolo Di Lauro). Sono loro l’ago della bilancia, hanno assunto spessore e hanno costruito una sorta di patto di non belligeranza con gli antichi alleati dei Di Lauro, mantenendo le distanza rispetto agli scissionisti che vantano, al momento, la presenza nelle proprie fila del latitante Mario «Mariano» Riccio (non è parente del ragazzo ucciso l'altra notte).

Scenario fluido, sempre critico, difficile da ingabbiare. Dopo anni di contrapposizione, da qualche mese potrebbe essere nato un terzo gruppo accanto a scissionisti e dilauriani. Quelli della «vannella», quelli dei «Magnetti-Petriccione», quelli che hanno subito di recente l’arresto di uno dei capi e che ora sono pronti a ribadire le proprie regole, dentro e fuori i propri confini criminali.

Un terzo polo, fondato su una logica elementare. Quella economica, prima ancora che militare: a pochi passi dal corso Secondigliano, la zona della «vannella» è diventata negli ultimi anni una piazza importante di spaccio, lontano dalle Vele e dagli zombie che si aggirano sotto le rampe dell’asse mediano. Una porta d’accesso da difendere lontano da logiche di appartenenza, una sorta di enclave tra vecchi e nuovi rivali, dove aveva provato a recitare un ruolo anche il diciannovenne raggiunto la scorsa notte dall’ultimo agguato in terra di faida.